Studio Scarmagnani
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TROPPI IMPEGNI?

30/12/2010

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QUANDO USCIAMO PORTIAMO TUTTA LA RICCHEZZA DELLA NOSTRA FAMIGLIA

Sono sposata e ho un bambino di due anni; la nostra è una famiglia felice, condividiamo tutto e soprattutto decidiamo sempre tutti insieme come progettare la nostra vita familiare. Da qualche mese ho iniziato una scuola serale che mi impegna una sera a settimana e mio marito invece si dedica ad un’associazione di volontariato, sempre una sera la settimana. Abbiamo deciso, insieme, di non essere fuori casa la stessa sera per poter stare, ovviamente, con il bambino. Parlando di come ci siamo organizzati con una mia amica mi sono però sentita rispondere: «Siete sempre fuori e molto impegnati! Poi non c’è tempo per stare insieme e la gente divorzia!» Ed io, che già avevo dei sensi di colpa perché lascio la mia famiglia a casa per seguire una mia passione, ho avuto mille ripensamenti e mille dubbi. Premesso che mio marito ed io non ci facciamo mai pesare nulla, anzi, siamo felici delle attività l’uno dell’altra, dopo questa infelice osservazione sono un po’ perplessa. Saluti.

Simonetta dal Veneto

Tempo e spazio: sono le dimensioni nelle quali ognuno di noi vive, si relaziona, ama.

Quali i tempi e gli spazi del nostro prenderci cura, dell’ascoltarci, dell’accoglierci? Quali quelli del nostro proiettarci fuori le mura domestiche? Soprattutto oggi, che la vita familiare è sempre più complessa, dobbiamo dosare con intelligenza i nostri impegni e confrontarci continuamente, per evitare che diventino fughe e illusorio tentativo di appagamento personale a scapito del benessere familiare.

Tutti conosciamo famiglie nelle quali ogni impegno dell’uno è un mugugno dell’altro, ma non è questo il tuo caso. Conosciamo anche famiglie nelle quali ognuno va per la sua strada e nessuno ha nulla da ridire e ci chiediamo: ma sono famiglie? È necessario trovare un equilibrio, e dare agli impegni extrafamiliari la giusta collocazione.

Immagina la tua famiglia come un giardino. Nel giardino ci sono tante aiuole e ogni aiuola va curata. C’è l’aiuola tua personale, quella di tuo marito, quella di tuo figlio, quella della coppia, quella di voi insieme come famiglia. Se ne trascuri anche una sola, le erbacce che crescono infesteranno anche le altre.

Simonetta, quello a cui dovete fare attenzione non è la quantità di impegni che ognuno di voi si prende, ma il fatto che gli impegni siano bilanciati e condivisi. Qual è la giusta misura? Qui sta la difficoltà, perché non solo ognuno è diverso e ogni famiglia è a sé, ma la stessa famiglia – nel corso della vita – darà risposte differenti. Quando ci sono i bambini piccoli è più difficile uscire per motivi soprattutto pratici, quando invece sono più grandi è quasi una necessità buttarsi all’esterno e vivere una genitorialità sociale.

Gli impegni di ognuno coinvolgono tutti e, quando usciamo, si noterà quando portiamo dentro di noi la ricchezza di tutta la nostra famiglia. E che differenza!
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AFFRONTARE LA MALATTIA

30/12/2010

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L’ARRIVO DELLA MALATTIA NON COINVOLGE SOLO IL PAZIENTE. COME REAGISCE LA FAMIGLIA? COME AFFRONTARLA? QUANDO E QUANTO È GIUSTO PARLARNE?

«In che misura è giusto che un genitore renda partecipe un figlio dei propri problemi di salute? È giu- sto parlare con loro anche di questo? In fin dei conti sono grandi quanto basta per capire... Certo la questione non è semplice ma la malattia non lo è mai.»

Sono le domande che si fa Silvia, da poco a conoscenza che un amico di famiglia «probabilmente ha la leucemia... Deve essere ricoverato in ospedale, una situazione non facile e per niente felice. Parlando con lui ha detto che la cosa che gli riesce più difficile è il rapporto con i figli. Ne ha due e sono adolescenti».

Quanti pensieri affollano la mente di chi scopre una malattia importante, ad esito incerto. Quante preoccupazioni.

Che succederà di me? Che sarà del mio corpo? Dei miei progetti? Come lo dirò ai miei figli, a mia moglie, ai miei genitori? Come potrò proteggerli dal dolore? Come potrò garantire loro un futuro? Come cambierà la nostra vita?

La malattia non coinvolge solo il tuo amico, cara Silvia, ma tutta la sua famiglia. È tutto il sistema che si dovrà riadattare alla nuova situazione, preoccuparsi, sperare, affrontare le difficoltà, consolarsi, stringersi e farsi forza. La reazione dei familiari di fronte ad una malattia, dicono alcuni recenti studi, va dalla negazione all’ipercoinvolgimento, da chi riceve risposte evitanti e distanzianti del tipo «Cosa vuoi che sia?» a chi viene soffocato da cure che veicolano ansia, che bloccano il malato anche quando dovrebbe trovare spazi di una rielaborata autonomia.

Quello che è certo è che – trascorso un congruo tempo di rielaborazione personale ed eventualmente di coppia – la via da percorrere è in ogni caso quella della comunicazione più trasparente possibile per evitare di creare zone di “vuoto comunicativo”, nel quale i bambini e i ragazzi percepiscono che c’è qualcosa che non va ma non riesco- no a dare un nome a quello che sta succedendo. È ovvio che la modalità comunicativa dovrà adattarsi alleetà: un bambino piccolo, che non ha molti meccanismi di difesa, dovrà essere preservato da particolari sulla malattia che possono essere per lui troppo pesanti da portare. Tuttavia bisognerà essere pronti a rispondere con chiarezza a tutte le sue domande.

Gli adolescenti invece, come i figli dei quali parla la nostra lettrice, andranno informati con molta
precisione. Solitamente loro hanno un atteggiamento che pare distaccato, ma nel profondo sono molto preoccupati. Anche la malattia e la sofferenza – che fanno parte della vita – possono essere un’occasione per crescere nella profondità e nella verità dei legami familiari.

La reazione

Ogni famiglia reagisce in modo differente all’annuncio di una malattia. La recente psicooncologia ha comunque individuato l’attraversamento di fasi spesso parallele a quelle che vive il paziente stesso: fase di shock: angoscia paralizzante; fase di negazione: vengono contattati più medici nella speranza di un errore diagnostico; fase di disperazione: emergono tristezza e paura; fase rielaborativa: emerge lo stile familiare: di negazione, iperpro- tettivo ed eccessivamente coinvolto, o distaccato; fase di accettazione: le difficoltà vengono affrontate e i cambiamenti nelle dinamiche familiari portano alla costituzione di un nuovo equilibrio.


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CONCEDIAMOCI ANCHE IL LUSSO DI LITIGARE

30/12/2010

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C’era una volta una Casa nella prateria, dove papà e mamma sorridenti si amavano per sempre, i neonati dor- mivano beati e i figli adolescenti obbedivano entusiasti senza un accenno di contestazione. Bei tempi del passato... Ai nostri giorni, invece, accade che nei primi sei mesi del 2006 – solo a Verona – ci siano 1.000 casi documentati di violenza domestica. E si sa che la bella cittadina veneta detiene il primato di separazioni e divorzi: ogni due nuovi
matrimoni, uno salta. Dentro di noi immagini distorte e polarizzate come quelle della TV: da una parte gli spot di pasta e merendine ci propongono famiglie perennemente felici, dall’altra fiction e gialli si soffermano, morbosi, tra le pieghe della sofferenza, del tradimento, della violenza. E la famiglia «normale» come deve essere? Fino a qualche decennio fa, per gli studiosi delle scienze sociali, la fami- glia normale era quella senza problemi, ma fortunatamente ci si è scostati da questa immagine per di più irreale e frustrante.

Dagli anni Sessanta in poi, da una teoria familiare basata sul consenso a tutti i costi si è passati a una teoria che prendesse in dovuta considerazione la funzione del conflitto. Col tempo l’associazione crisi-instabilità è stata abbandonata fino ad arrivare, negliultimi anni, a capovolgere il punto di vista e a teorizzare una possibile associazione della patologia con l’eccessiva tranquillità in casa. La famiglia è infatti una realtà complessa e dinamica, e la stabilità, intesa come eterno consenso-armonia, ne potrebbe evidenziare la rigidità e la cristallizzazione.

Ci sono dei motivi evidenti per cui la realtà familiare, e in particolare quella coniugale, sarebbe fisiologicamente costellata dal conflitto.

Innanzitutto perché la coppia si trova a gestire il crocevia di tre ordini di differenze: la prima è quella dovuta al fatto che chi si sposa deve integrare due mondi talvolta molto lontani, e per questo incredibilmente affascinanti. Nella coppia moderna, con l’avvicinamento dei percorsi di vita, c’è il bisogno quasi quotidiano di negoziare i ruoli, i tempi di famiglia, le priorità, pur vivendole in maniera molto differente.

La seconda è la differenza di generazioni, che prende avvio dal fatto che si diviene genitori e si devono tirar su le nuove generazioni facendo gli equilibristi, nell’essere educatori, tra tradizione e modernità.

La terza è la differenza di stirpi: il difficile differenziarsi dalle famiglie di origine riuscendo allo stesso tempo a integrarle positivamente.

Ma, nella vita di una coppia, c’è anche la necessità di affrontare, nella diversità, una serie di tappe, di passaggi fisiologici da una fase all’altra della vita familiare. Tra i primi eventi critici: la difficoltà di gestire la delusione rispetto alle attese fantasticate sul partner!

Poi la nascita del primo figlio, grande gioia, ma anche fonte di stress e insicurezza. Ci si è appena ripresi e i figli sono cresciuti e diventano adolescenti ribelli o depressi.

Di occasioni per uscire dalla monotonia ce ne sono. Chi pensa allora che una coppia possa attraversare questo mare senza imparare a gestire le differenze e i conflitti che ne derivano?

Se la guerra, la volontà di distruzione, di annientamento sono da tener lontani dalla famiglia, un temporaneo momenti di incomprensione ha dei lati addirittura positivi: il conflitto evita la stagnazione, la monotonia, stimola la curiosità e la ricerca di soluzioni creative, e può essere un’occasione per sfruttare al massimo le proprie potenzialità. Allora si può provare a far prendere alla diver- sità di opinioni la giusta dimensione, che è quella di ragionare in termini di cooperazione e non di competizione. La competizione implica sempre che ci sia un vincitore e un vinto, che la scelta di una via scarti in assoluto quella dell’avversario, e che chi cede covi sentimenti di rivalsa. Cooperare invece significa imparare a lavorare per un obiettivo comune, permettendo il permanere di differenze anche sostanziali. In altre parole, per risolvere un problema collaborando non serve pensarla tutti allo stesso modo, ma trasformare le differenze in una dinamica costruttiva.

Facciamo un esempio: se due coniugi litigano perché uno vuole andare tutte le domeniche da mamma (generalmente lei) e uno non vuole avere niente a che fare con qualsivoglia parente (generalmente lui), viaggiano su due posizioni estreme e inconciliabili. Allora, non ci deve essere un vincitore e un perdente ogni volta che si discu- te di una visita ai parenti; ognuno può capire che sarà sicuramente arricchito dal desiderio dell’altro, e può scegliere insieme e consapevolmente, di volta in volta, una delle due opzioni.

La mancanza di dissensi – al contrario – potrebbe significare la stagnazione e la ripetizione in famiglia di schemi irrigiditi e di stereotipi dai quali è poi impossibile liberarsi. Il bisogno di non entrare in conflitto per il terrore della rottura, diventa una prigione. Facciamo vivere la nostra famiglia in maniera fluida, dinamica e aperta, e, a volte, concediamoci anche il lusso di litigare. Questa è la libertà di chi ha acquisito la fiducia che il conflitto, la diversità di opinioni, può essere espressa senza che la relazione venga messa in discussione. Resta per alcuni la difficoltà emotiva di reggere i momenti di maggior tensione. Allora non spaventiamoci e proviamo col vecchio e banale adagio del «Mal comune mezzo gaudio». Sì, i problemi, le giornate e le settimane «no» le hanno tutti. Il fatto di passare momenti insieme ad altre famiglie, che magari si trovano ad affrontare problemi simili, può far tornare la serenità, ridimensionare le nostre ansie e sdrammatizzare alcune situazioni pesanti. Alcuni recenti studi hanno scoperto che non ci sono differenze sostanziali nei temi e nei meccanismi conflittuali delle famiglie che evolvono verso percorsi di disfunzionalità e di quelle che invece si definiscono realizzate. Solo che le prime accumulano continuamente fango su fango, mentre le seconde ogni volta sanno rialzarsi. Cerchiamo di far parte del club di quelli che, con umiltà e amore, ricominciano ogni giorno la loro avventura. 


COS’È IL CONFLITTO

Per la psicanalisi è qualcosa di legato alla natura dell’uomo. Sigmund Freud lo attribuisce a forti pulsioni interne, Melanie Klein lo associa agli istinti aggressivi di base. Secondo l’approccio relazionale, il conflitto è legato al bisogno di preservare i propri prodotti culturali.

Il sociologo Niklas Luhmann, che si è occupato di conflitti, li definisce «contraddizioni divenute operative». Avviene una semplificazione delle informazioni e un uso selettivo di esse. Quando il conflitto si inasprisce ognuno cerca la «sua» verità, spacciandola per verità assoluta e rifiutando di lavorare per la ricerca di un senso condiviso.

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CHI SI SFOGA PER PRIMO?

30/12/2010

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NON CI SI PUO' BUTTARE A PESO MORTO SUL CONIUGE

Caro Marco, in famiglia stiamo passando un momento in cui siamo messi molto alla prova. Mia moglie, dopo parecchi anni che lavorava nell’attività di mia suocera, ha deciso di trovarsi un altro lavoro. Io l’ho incoraggiata, perché cerco di assecondare il suo bisogno di esprimersi in una professione che la gratifichi. Il problema è che in questo periodo, causa alcune incomprensioni nello studio tecnico nel quale lavoro, mi sto muovendo per mettermi in proprio con l’attività. Risultato: quando ci ritroviamo a sera, mia moglie mi vuole raccontare di quanto difficile è stato il rapporto con sua madre, ed io vorrei essere ascoltato (e consolato) per tutte le battaglie che ho dovuto affrontare in ufficio. Spesso succede che io comincio a parlare e lei mi interrompe per dirmi qualcosa. Allora mi blocco e non riesco più a parlare. «Dimmi tutto quello che devi dirmi e poi parlerò io», dico un po’ scocciato... Poi non sopporto che lei mi ascolti mentre fa altre cose o gioca con nostro figlio. Spesso andiamo a letto con il broncio. Che devo fare?

Andrea – Verona


Caro Andrea, c’è un esercizio che mi è capitato di proporre ad una coppia che mi diceva di incomprensioni come la vostra, e vi invito a svolgere.

In piedi mettetevi di fronte e appoggiatevi l’uno all’altro. Quando vi sentite in equilibrio tutti e due fate un passo indietro rimanendo appoggiati. Cercate di mantenere questa posizione per un minuto e concentratevi sulle sensazioni che provate. Come state?

Questa figura vi spiega bene che cosa succede quando nella coppia ci si appoggia l’uno all’altro. Il corpo è molto più eloquente di tanti ragionamenti.

Che cosa avete sentito? Che in una situazione di normalità appoggiarsi può essere piacevole, ma se le esigenze di equilibrio crescono, darsi peso contemporaneamente è fastidioso.

Che cosa fanno due persone sensate in una posizione scomoda? Cercano un nuovo equilibrio! Si staccano, si riavvicinano e cercano una posizione comoda per entrambi.

Andrea, non ci si può buttare a peso morto sul coniuge.

Fuor di metafora, rivedete con semplicità le aspettative reciproche che avete. Forse non siete maturati nella capacità di affidarvi all’altro stando sulle vostre gambe. È un rischio frequente che si corre nella coppia.

Uscite dalla pretesa di avere sempre soddisfatti i vostri bisogni, anche se sono legittimi, e crescerete nella capacità di relazionarvi da adulti.

Tornando alla posizione di prima, quando state per buttarvi uno sull’altro vedrei bene che ti spostassi e che lasciassi cadere tua moglie... in un bell’abbraccio. Hai già un’occasione per sentirti fiero di te.

Vedo già il suo sguardo grato. Adesso ti ascolterà più volentieri.
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IL DURO LAVORO

30/12/2010

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PER ALCUNI GIOVANI GUADAGNARSI QUALCHE EURO È UNA PARENTESI ESTIVA, PER ALTRI INVECE SI TRATTA GIÀ DI UN’ATTIVITÀ STABILE. A VOLTE PERÒ I RAGAZZI INCAPPANO IN BRUTTE ESPERIENZE


Inostri ragazzi sull’orlo della maggiore età ritornano sui banchi dopo un’estate durante la quale alcuni per la prima volta si sono confrontati con il lavoro.

Lavorare, per un giovane, significa prima di tutto guadagnarsi qualche centinaio di Euro per dimostrare a se stesso e agli altri di essere in grado di cavarsela da solo, significa avere la possibilità di pagarsi alcuni sfizi tipici dell’età: lo scooter, un cellulare nuovo, un paio di pantaloni ai quali si tiene molto, la prima vacanza con gli amici.

Ma accanto a questi giovani ci sono anche quelli per i quali il lavoro non è una parentesi estiva. Sono i ragazzi che hanno lasciato la scuola e che si sono messi ancora minorenni nel mercato del lavoro.

È vero che si sentono più grandi dei coetanei, ma per loro la vita può essere molto dura, e le esperienze non sempre positive.

Maria ci racconta di suo figlio diciannovenne che «dopo aver lavorato per due anni in una ditta di idraulica, da un giorno all’altro si è licenziato, e adesso sono sei mesi che bighellona per casa e non ha intenzione di trovarsi un altro lavoro. Ha detto che era un sacco di tempo che lo trattavano male, che aveva provato a dircelo ma noi non l’abbiamo capito. Io e suo padre a volte ci arrabbiamo, altre volte cerchiamo di parlargli, altre lo incoraggiamo a cercare lavoro, ma lui si è chiuso in un muro di silenzio. Adesso non sappiamo più cosa fare». Sono molti i genitori che si trovano ad affrontare problemi come il vostro, e la questione è molto delicata. Non riuscire nel lavoro può creare delle ferite significative all’autostima e – come avete già potuto notare – ci sono ripercussioni sul piano familiare e sociale.

I giovani si chiudono, spesso anche con i propri amici, e cominciano a fare una vita disordinata: dormono o stanno davanti alla tv tutto il giorno, escono la sera tardi e rientrano a mattina, rispondono sempre in modo scon- troso.

La vostra posizione di genitori è molto delicata.

Non scoraggiatevi nel cercare di gettare ponti, magari facendovi aiutare da una persona che smussi un po’ la contrapposizione: un professionista, ma anche un sacerdote o un parente del quale vi fidate. Se ci
sono altri fratelli coinvolgeteli, raccomandando loro di non fare i saputelli ma di incontrarsi perché tutti possano esprimere le proprie emozioni: la vostra preoccupazione, la tristezza di vostro figlio, i sentimenti altalenanti dei fratelli. In una famiglia, quando ci sono difficoltà, l’unione fa la forza.

Giovani vittime della scarsa esperienza

Nel 2005 solo un ragazzo su quattro di età compresa tra i 15 e i 24 anni risultava occupato. Si tratta di ragazzi che sono ancora nell’età dello studio, anche se oltre i limiti dell’obbligo.

Il tasso di disoccupazione gio- vanile ha raggiunto tassi del 24% con punte del 38% al sud. Situazione ancora più grave tra le giovani donne del mezzogiorno, dove il livello di non occupazione è pari al 44%.

C’è poi un altro problema: la difficoltà a trovare forme di occupazione consone con il livello di studi, legata spesso alla necessità di emigrare dai propri territori di origine. (fonte: Redattore Sociale)


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QUEI RAPPORTI CHE SPENGONO LA LUCE

30/12/2010

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BEN VENGANO LE COPPIE CHE TESTIMONIANO CON SEMPLICITA' E GIOIA LA BELLEZZA DI UNA VITA DI FEDE.

Caro Marco, ti scrivo in merito alla tua risposta alla lettera di una ragazza 34enne, fidanzata, sul tema dei rapporti prematrimoniali perché mi sento di aggiungere un aspetto molto importante: quello spirituale. Per esperienza personale e anche di coppie che io e mio marito seguiamo da tempo ho potuto constatare con incredibile chiarezza che il vivere rapporti prematrimoniali spegne il fuoco della ricerca vocazionale. Mi spiego: il fidanzamento è quel periodo particolare in cui non c’è solamente l’innamoramento tra i due ma anche il cercare di capire qual è la chiamata che Dio ha messo dentro al cuore di ciascuno; è un periodo faticoso ma se vissuto in profondità crea una base massiccia per un rapporto futuro profondo e forte. Se intervengono i rapporti prematrimoniali tutta l’attesa, la preparazione spirituale vengono meno. La luce che trasmettono le persone in ricerca è di una bellezza particolare e chi decide di aspettare per far crescere la parte spirituale della coppia sa cosa stava per perdere!

Arianna

Grazie Arianna per la tua bella lettera e per l’occasione che ci dai di riflettere insieme sulla parte “verticale” della vita di relazione. Una fede profonda, personale e di coppia, è il nutrimento spirituale che permette agli innamorati di progettare un futuro che va oltre i limiti della nostra ca- pacità di capire e ci dischiude ad orizzonti infiniti. Don Oreste, nel suo ultimo libro Nel cuore della famiglia ce lo ha spiegato con parole meravigliose.

La famiglia ha un modo tutto particolare per esprimerlo, nella ricerca della santità nelle relazioni, nell’aiutarsi vicen- devolmente, nel crescere i figli nella fede, nell’affrontare nel rapporto con Dio le crisi legate ai passaggi naturali della vita e i temporanei disaccordi che sono connaturali alla comunione di diversità.

Il fidanzamento è un tempo di grazia, e quindi molto delicato. Pone – come dici con saggezza – le basi per fondare il proprio rapporto sulla roccia. Che esempio meraviglioso sono i fidanzati che si conoscono e si innamorano all’interno dei gruppi parrocchiali, delle associazioni, delle comunità. In un mondo dove ci si sposa sempre meno e sempre più tardi, dove il problema principale sembra essere il colore delle piastrelle del bagno, immergere il proprio amore nella preghiera, nella dire- zione spirituale, nella formazione continua, è un grande dono.

Anche nelle prove che la vita inevitabilmente presenterà, vivranno la fiducia che – parafrasando il profeta Isaia – bril- lerà fra le tenebre la loro luce e per loro l’oscurità sarà come il meriggio.

I fidanzati di oggi non hanno bisogno di prediche né di persone che li giudicano. Come cristiani abbiamo la responsabilità di essere fedeli a ciò che abbiamo ricevuto in dono. Ben vengano quindi le coppie – come la tua – che testimoniano con semplicità e gioia la bellezza di una vita di fede.

Ben vengano le nuove coppie – e ce ne sono molte – che immerse nel mondo sanno essere sale e luce per chi le incontra. Attireranno sempre più giovani ad una vita di festa.

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DAL NOSTRO NIDO A QUELLO COMUNALE

30/12/2010

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MANDARE LA PICCOLA AL NIDO? PAPÀ E MAMMA LA VEDONO IN MANIERA DIVERSA. MA LA DOMANDA NASCONDE MOLTE ALTRE QUESTIONI DA AFFRONTARE


«Sono sposata e ho tre figli – scrive Rosa – ho sempre lavorato part-time. La mia ultima nata non ha ancora l’età per la scuola materna ed io devo tornare al lavoro, stiamo ragionando sul nido, ma mio marito non è molto d’accordo... Cosa sarà meglio per lei?». Se il rapporto di coppia è sereno, se c’è stima e fiducia reciproca, le diversità di vedute non sono contraddizioni ma ricchezze e ognuno è curioso di capire il punto di vista dell’altro.

«Con gli altri due figli – continua Rosa – c’era la disponibilità della nonna, ancora in salute. Mio marito sostiene che non sia così fondamentale il lavoro della moglie, insomma potrebbe stare a casa e gestire la piccola fino al prossimo anno... quando andrà all’asilo. Dimostra un forte senso di protezione verso la piccola e sostiene che non sia un’esperienza positiva quella del nido. Io invece sostengo che mia figlia è molto socievole e che stare in mezzo ai bambini può farle solo bene». Ma allora, cara Rosa, non è solo del nido che state parlando! Hai visto quanti temi ci sono in ballo? C’è – come ci dici – il problema se mandare o meno la vostra bimba al nido, ma c’è anche una ristrutturazione importante dei rapporti con le vostre famiglie. Come è cambiato il vostro rapporto con la nonna che è meno in forma? Come state affrontando emotivamente il fatto di non poter contare sul suo appoggio, e magari di dover essere voi a farvi carico di lei e degli altri vostri genitori?

Poi mi scrivi parole che sanno di Edipo. Perché tuo marito è così protettivo? Era così anche con gli altri? È la prima figlia femmina? La principessa di papà?

C’è poi un bisogno sopito di definire bene i ruoli. Tuo marito pensa che sia lui a dover mantenere la famiglia? Ti pare che non capisca il tuo bisogno di realizzarti? Visto che anche la figlia tu la vedi “molto socievole” e lui è protettivo, prova a capire perché è così preoccupato del fatto che una donna esca di casa. Potrebbe essere un retaggio culturale o una paura legata ad una circostanza particolare.

Vedi Rosa, le cose da chiarire sono molte. Datevi tempo, affrontatele con calma, magari approfittando della pausa estiva, facendovi aiutare se serve da un professionista o anche da un sacerdote che dia il giusto tono spirituale alle vostre scelte che paiono così “tecniche” ma non lo sono. Snocciolate tutti i temi che dalla lettera sono emersi e non preoccupatevi se non arrivate subito all’accordo su tutto. Le diversità vanno integrate, con pazienza.

Poi vedrete che la scelta di mandare o meno vostra figlia al nido verrà di conseguenza, con naturalezza.

Richiesta di asilo

La diffusione degli asili nido è un fenomeno recente e strettamente collegato al cambiamento del ruolo della madre, sempre più lavoratrice, sia per ragioni economiche, che di realizzazione individuale. Tuttavia i genitori che cercano un asilo, sanno che trovare un posto, e trovarlo ad un prezzo accessibile, spesso è un’impresa. Secondo una ricerca del Politecnico, negli asili nido milanesi c’è posto solo per 1 bambino su 5. Eppure il 94% delle richieste dei genitori viene accolta. Una percentuale molto alta che fa di Milano la prima della classe in Italia rispetto al 74% di Napoli e al 57% di Roma.

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LE MUTANDE DELLA MAMMA

30/12/2010

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"Le mutande che la suocera compra a tuo marito rappresentano un simbolico talmente potente che qualsiasi psicanalista potrebbe lavorarci per alcuni giorni"


No, la mia vita non è per niente stata facile. Sono stata abbandonata da mio padre quando avevo tre anni, mia madre ha il morbo di Parkinson da parecchi anni, ed io passo con lei il poco tempo che mi resta dallo star dietro a mio marito e a mio figlio. Sono a pezzi.

Ma il motivo per cui le scrivo potrebbe essere una stupidaggine rispetto a tutte queste cose. Mio marito si mette sempre le mutande che gli compra sua madre. È perché lavora nell’azienda di casa sua e si fa la doccia là prima di tornare. Sarà pure una cosa innocente ma mi irrita da morire e spesso siamo stati ai ferri corti. Con sua madre ho provato ad accennarlo e lei mi ha risposto candidamente: «Grazie, comprale pure tu che poi ti do i soldi...»

Questo è troppo! Sono furiosa! Ma sono proprio fuori? Una risposta, grazie.

Lucia




No, Lucia, non sei fuori. O almeno non perché ti arrabbi per le mutande. Per il resto la tua stanchezza, l’essere sfibrata traspare dalle poche righe che ci mandi.

Le mutande che tua suocera compra al figlio rappresentano un simbolico talmente potente che qualsiasi psicanalista potrebbe lavorarci per giorni.

Non è il mio campo, quindi mi limito a qualche considerazione più immediata.

La mamma lava e cambia il bambino, il bambino cresce e si cambia da solo... ma la mamma continua ad intervenire. Pare proprio che il cordone ombelicale non sia ancora del tutto reciso.

Il fatto è comunque che imbestialirsi col marito e la suocera non ti porterà troppo lontano.

Allora, percorso più faticoso, prova a vedere qual è il contributo che stai dando affinché questa situazione continui. Perché Lucia il tuo “star dietro a mio marito e a mio figlio” lascia intendere che anche tu stai considerando questo marito un po’ al pari di tuo figlio. Perché?

Forse perché non puoi contare sull’esempio: già tuo padre ti ha presentato uno stile disimpegnato, e tu non sai che cosa ci si può aspettare da un uomo.

Tuo marito è meglio di tuo padre, ma forse potresti chiedere ancora di più dal tuo rapporto di coppia.

Coinvolgilo nelle tue scelte, chiedigli di fare il padre, partecipagli il tuo faticosissimo impegno con tua madre. Soprattutto impara ad accettare che lui non farà sempre come ti saresti aspettata, che a volte sarà un orso, che non ti ascolterà come e quando vorrai.

All’inizio dirai: «Ma allora era meglio se mi arrangiavo». Ma se persevererai con fiducia, speranza, tenacia, pian piano la vostra lontananza diventerà intimità di cuore, riuscirete ad affidarvi l’uno all’altra.

A quel punto, Lucia, vedrai che le mutande non saranno più un vostro problema.

Auguri.
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PAURA DEL CAMBIAMENTO

30/12/2010

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LA MAMMA SI TAGLIA I CAPELLI E IL FIGLIO DI SEI ANNI NON LA VUOLE PIÙ GUARDARE. CAMBIA LE PIASTRELLE E LUI È ANGOSCIATO. CHE SUCCEDE?

Alcuni bambini vivono molto male i cambiamenti, e a nulla valgono i tentativi di rassicurazioni dei genitori. Anzi, a volte pare che l’ansia dei pic- coli sia contagiosa, e tutta la famiglia – soprattutto a partire dalla mamma – si agita.

Succede ad esempio a Simona che, mi scrive, «quando mi sono tagliata i capelli mio figlio di 6 anni è andato in crisi: non poteva più guardarmi, scappava via da me. Sarò stata forse troppo drastica? Da quel giorno è diventato ansioso per tutto: abbiamo cambiato le piastrelle della cucina e non voleva più entrare in quella stanza, abbiamo spostato un mobile e lui, urlava: “Perché l’hai fatto?”».

Proprio adesso che tutto sembrava essersi sistemato. Sì, perché Simona, nella sua lettera, ci scrive anche di una operazione per un tumore al seno che – se ho fatto bene i calcoli – è avvenuta quando il figliolo in questione aveva circa un anno e mezzo.

La chemioterapia, la perdita dei capelli, non è che gli ricordi qualcosa di poco felice, un periodo buio, pieno di tensioni, ansie paure? Il sospetto è fin troppo fondato.

Allora, Simona, immagina la sua angoscia: se tu cercherai di sminuire le sue preoccupazioni lui si sentirà preso in giro, o penserà che tu gli stia mentendo per non preoccuparlo. Se invece lo rimprovererai, lui si sentirà non capito, e sempre più arrabbiato.

In questo caso, come suggerisce la psicanalista francese
Francoise Dolto, la cosa migliore è parlarne con trasparenza e dolcezza, rassicurando il bambino, dicendogli più o meno così: «Capisco che tu possa sentirti preoccupato perché la mamma senza capelli ti fa venire in mente quando ero ammalata. Ma non ti devi preoccupare, io sto benissimo. Questa volta li ho tagliati perché volevo essere più bella!».

La figura del papà – abbiamo più volte avuto modo di sottolinearlo – ha per sua natura qualche marcia in più nel contenere l’ansia e nell’aiutare a superare positivamente questi momenti di empasse. I padri sono in genere meno empatici ma, di fronte ad uno stato d’ansia, se si impegnano un pochino, sapranno più delle madri non farsi invadere dai sentimenti del figlio. L’ideale quindi per spezzare quei circoli viziosi di cui accennavamo all’inizio, per cui l’ansia di madre e figlio si rinforzano a vicenda. Parla con tuo marito che – da quello che capisco – è un pochino lontano dalla vostra relazione, e chiedigli semplicemente di passare un po’ di tempo in più con vostro figlio. «A far che?» ti chiederà lui. «Nulla di particolare – gli risponderai – parlagli un po’, portatelo a fare un giro, portalo con te sul lavoro, fagli respirare la tua forza».

Di che cosa hai paura?

La paura della notte. La paura della Tv. La paura della scuola. La paura di essere abbandonati perché la famiglia si sfalda. La paura di non essere all’altezza. La paura di non essere belli.

Sono queste le paure dei bambini emerse da un’indagine condotta fra 1.500 alunni delle scuole di Roma. Molte paure sono uguali a quelle vissute dalle vecchie generazioni, ma molte sono esclusive dei bambini di oggi dovute al nuovo modello di società che si è andata rapidamente evolvendo e vuole che il bambino diventi presto un adulto, ma poi non gli dà gli strumenti necessari per gestire la propria autonomia.


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FAMIGLIA TRA TERRA E CIELO

23/12/2010

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L’APPUNTAMENTO PER GLI ULTIMISSIMI RITOCCHI ERA FISSATO IN REDAZIONE PER VENERDÌ 2 NOVEMBRE 2007, LA MATTINA CHE È SALITO AL CIELO. ECCO L’EREDITÀ DI DON ORESTE PER LE FAMIGLIE, DA SEMPRE NEL SUO CUORE DI PASTORE.

Don, perché non raccogli in un libro tutte le tue ri- flessioni sulla famiglia?». «Sì, dai...», ha risposto lui con il suo solito contagioso entusiasmo per le cose nuove. «Ti diamo una mano noi, cerchiamo tutto quello che in questi anni hai scritto sul tema. Poi tu puoi aggiustare, aggiornare, aggiungere...»
Era circa un anno fa, in una delle redazioni mensili du- rante le quali, tra una telefonata e l’altra, con il nostro di- rettore ci confrontavamo sulla linea editoriale di Sempre, su Pane Quotidiano, sui libri in cantiere.
Ci piaceva intercalare gli scritti di taglio più “spirituale”, come Il sì di Maria, gli editoriali, la rubrica Spiritual trainer, con altri di tipo educativo. Onora tuo figlio e tua
figlia era già stato molto apprezzato, e don Oreste aveva saputo sorprenderci per come lui, mistico e contempla- tivo, fosse assolutamente a suo agio anche con le scienze umane. Anzi, proprio la sua profonda vita di fede dava alle teorie scientifiche che lui esprimeva, quel quid in più, quella nota di genio che apriva a grandi orizzonti.
E questa è la grande originalità che si respira sfogliando Nel cuore della famiglia. Chi ha dimestichezza con questo genere di libri, sa quanto di pedagogico, psicologico, antropologico e sociologico sia stato scritto sulla famiglia. Quello che si trova in questo testo è una perla preziosa. Una famiglia dal respiro trascendente, una coppia che affonda le sue radici nel progetto di Dio e che sempre nel progetto di Dio si espande. Un libro di catechismo? No, tutt’altro. La saggezza umana e la cultura scientifica di don Benzi traspaiono da ogni riga, ma non sono mai il punto di arrivo. Sono casomai uno spunto per dire: «Queste teorie sono interessanti, ma non finisce tutto qui, siete chiamati ad un amore infinito».
Ecco allora che tra le pagine più belle c’è l’innamora- mento, l’amore tenero ed esclusivo, la progettualità, ma anche la passione. Un amore mai tiepido, talvolta fragile, sempre carico di speranza.
Anche con i figli, il segreto è dischiuderli ad infiniti orizzonti, siano essi figli naturali o accolti in casa. Sì, perché l’amore che in famiglia ci si scambia diventa troppo grande per rimanere soffocato nelle mura domestiche e si espande al mondo, agli altri.
Famiglia del “Mulino Bianco” in chiave cattolica allora? Nemmeno. Non mancano pagine segnate dalle soffe- renze, espresse a partire dalla voce dei protagonisti, dalle tantissime lettere che il don riceveva e alle quali da buon pastore rispondeva.
Il divorzio, il tradimento, la fatica di perdonare, i piccoli e grandi grattacapi che i figli procurano. Ma anche i nonni, come problema da affrontare ma soprattutto come risorsa, i figli con handicap, la necessità di investire sulle relazioni.
Risposte, incoraggiamenti, indirizzi chiari e precisi. E qui c’è il don Benzi più diretto, che non si adagia ad essere diplomatico e politicamente corretto.
Idee precise, senza mezzi termini, su omosessualità, con- vivenza, rapporti prematrimoniali, aborto. Con la chiarezza del progetto di Dio sulla famiglia, sostenuto dalla scienza, e con la grande esperienza di una vita in mezzo alla gente, don Oreste attraverso questo libro continua a parlarci.


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    AUTORE

    Marco Scarmagnani
    giornalista e
    consulente familiare

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    che scrivo su Sempre
    e articoli scritti
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