Studio Scarmagnani
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ABITUDINE: LA TORTURA DELL'AMORE

22/2/2011

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Sono sposato da 13 anni e provo ancora attrazione fisica per mia moglie, ma lei non si concede molto spesso. Dice di sentirsi ancora attratta da me, ma quando mi avvicino, lei si ritrae, lamentandosi che si sente trascurata, che non si sente amata. Ma non è attenta alle piccole cose che faccio. Tante volte penso di proporle qualcosa di speciale, ma poi mi lascio prendere dagli impegni. Quando facciamo sesso è bello, ma farlo una volta ogni 2 mesi mi sembra troppo poco! Del resto non trovo il coraggio di cercarla più spesso, perché ho paura del suo rifiuto. Che devo fare?

Guido



Ogni due mesi è un po’ pochino, è vero Guido. Ma come hai ben capito il problema non sta lì, nella frequenza. Siete sposati da 13 anni e maturi abbastanza per capire che è la relazione che va ricercata, curata, fatta crescere.

E così, dopo aver cresciuto i vostri figli, ora vi trovate a crescere il vostro rapporto, anche quello intimo, che è fatto sì di “sesso”, ma e preceduto soprattutto da attenzioni, pensieri, sintonia, che creano il terreno fertile affinché l’incontro possa avere un senso.

Cos’è che non funziona? I troppi impegni, i figli, l’abitudine, le preoccupazioni, le intenzioni che sono belle finché te le fantastichi nella mente, ma che poi si sciolgono di fronte alla durezza della vita concreta. «Vorrei fare qualcosa di carino, di romantico  – ci dici – come si vede nei film, ma la vita non è un film, e mi lascio prendere dalle cose da fare".
Quant'è che non uscite insieme? Che non cenate romanticamente? Che non vi fermate a chiacchierare allegramente senza che si parli necessariamente dei figli, del mutuo da pagare, del lavoro che è a rischio per la crisi? Eros (Amore) e Psiche (Anima) vivevano notti di sesso appassionato, senza mai guardarsi in volto, al buio. Quando è arrivata la luce, si sono spaventati per la loro abissale differenza – un maschio e una femmina, un dio ed un’umana – e l’incanto si è spezzato.

Psiche è stata catturata dalla suocera Venere e fatta torturare da tre sue ancelle – Consuetudo, Sollicitudo, Tristities – che le strappavano le vesti e la strattonavano per i capelli.

“Abitudine”, “Affanno” e “Tristezza” – che simbologia meravigliosa, saggezza degli antichi – torturano l’anima dell’amore. Qualcosa del genere riguarda anche voi?
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IL FILM: UN'OTTIMA ANNATA

22/2/2011

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Dalla city alla Provenza.

Avete presente “La ricerca della felicità”? Un’ottima annata (Scott, 2006) è proprio il contrario. Nel primo film Will Smith rinuncia ad una vita con moglie e figlio per diventare un broker, nel secondo Russell Crowe manda all’aria un meraviglioso posto di broker per trasferirsi
in Provenza e vivere una vita sana a contatto con la natura e gli affetti.

Una piacevolissima ed ironica storia di un amore che sboccia tra i due protagonisti – veramente affascinanti, dobbiamo riconoscerlo –: l’ex gladiatore Crowe ed una seducente Marion Cotillard, notevoli nell’interpretazione. L’occasione per il cinico ed insensibile businessman londinese è data dall’ereditare una tenuta in Provenza, che lui naturalmente vuole vendere per ricavarne il più possibile. Ma basteranno pochi giorni di slow life, la conoscenza delle persone che ci vivono e ci lavorano, i ricordi dell’infanzia trascorsa con lo zio e l’intrigante proprietaria del bistrot del paese a far cambiare l’ordine di importanza delle cose nella sua vita.


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PAPA' CHE LAVORO FAI?

22/2/2011

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COME FA UN GIOVANE AD AVERE PASSIONE DEL LAVORO SE NON HA MAI VISTO SUO PADRE LAVORARE? EFFETTI COLLATERALI DI QUESTA NUOVA FORMA DI ALIENAZIONE

"Mio figlio fa la quarta superiore ma quest’anno penso proprio che non ce la farà – esordisce la mamma – non che gli altri anni fosse una cima, ma quest’anno è proprio un disastro».

«E che fa, signora, al posto di studiare? Nulla, è di un’apatia... che mi dà sui nervi. Pochi amici, niente sport, qualche giochetto al computer. Non c’è niente che lo appassiona». «Suo marito che lavoro fa?». «Fa l’impiegato in una
azienda ad una trentina di chilometri da casa». «È mai stato suo figlio a vedere papà al lavoro? «No!». Come mai? Ve l’hanno proibito?».

«Ma no! – risponde sorpresa – Cosa vuole che ci sia da vedere? Uffici, carte, sedie...»

E così è scontato che la maggior parte degli adolescenti è completamente estranea al lavoro del padre, “alienata” per usare un termine caro al primo Marx.

Padri che partono la mattina, tornano la sera, magari sono pure bravi e interessati ai figli.

Un tempo molte professioni permettevano che i figli vedessero i padri al lavoro. In primis le professioni legate alla terra. «Papà coltiva i campi, alleva animali, io lo posso sentire la mattina quando si alza presto, lo vedo quando sto partendo per andare a scuola, lo rivedo durante la giornata quando entra in casa per ristorarsi e, quando ne ho voglia, so dove posso andarlo a trovare». Stessa cosa per gli artigiani, per i negozianti.

Uno dei principali effetti collaterali della rivoluzione industriale è stata quella di strappare i padri ai figli. «Vedo papà partire, non so dove va, e poi ritorna sfinito».

Oggi, che viviamo in un epoca post industriale, sotto certi aspetti la difficoltà è ancora maggiore. Se infatti uno può immaginare che cosa va a fare il padre operaio (racconta infatti della fabbrica, del tornio, dei suoi colleghi, del capo e delle macchine) molto più astratto è il lavoro dei cosiddetti “colletti bianchi”.

«Che fa tuo padre?». «L’impiegato». E che significa? Mah.

Ecco la difficoltà di prefigurarsi la concretezza di un lavoro futuro e la caduta in una sorta di apatia.

Non necessariamente un figlio intraprenderà la professione del padre, ma intanto interiorizza ciò che significa per un uomo lavorare.

Ma bisogna vedere, sentire i suoni, l’odore.

Mio padre faceva l’infermiere, e ricordo ancora – facevo le elementari – quando mi portava fuori del suo orario in ospedale. Ricordo come si muoveva agevolmente per quei lunghi corridoi, ricordo i saluti dei suoi colleghi e le presentazioni, le sbirciatine alle attrezzature, l’odore di disinfettante. E così, mentre ero a scuola, potevo immaginarmelo al suo lavoro, e pensare che impegnandomi anch’io un giorno ne avrei avuto uno. Ognuno pensi come donare a suo figlio questa esperienza.



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LA NOIA E LA PASSIONE

22/2/2011

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Gent.mo dott. Scarmagnani, sono una donna di trentasette anni, sposata da dieci con un uomo meraviglioso. Fedele, buono, onesto... mi ha sempre trattata bene. Da qualche tempo però, non riesco più a guardarlo come un tempo. In lui vedo solo i difetti, qualsiasi cosa dica sento il bisogno di contraddirlo. La sua presenza mi rende nervosa e intollerante. La verità è che da qualche tempo in palestra ho conosciuto un ragazzo, più giovane di me, ma terribilmente affascinante. Lui è l’irraggiungibile: bellissimo, intrigante, dolce e misterioso... e ha risvegliato in me la ragazzina innamorata. Mi sto facendo forza per non cedere alla tentazione, ma di fronte alle attenzioni e ai complimenti di quel ragazzo comincio a sentirmi debole. La prego, mi aiuti... mi sentirei una stupida a rovinare il mio matrimonio.

Gaietta 1973

Che ansia! Che inquietudine! E allo stesso tempo com’è intrigante lasciarsi trasportare dalla seduzione. Il terreno è scivoloso, all’inizio sembra un gioco ma poi ci si sente in trappola. E così ti sentiresti stupida. Perché? Perché hai iniziato pensando di evadere, di trovare maggiore libertà e invece adesso ti rendi conto che di libertà ne hai veramente poca, e ti senti costretta più di prima. Prima costretta a stare con il tuo uomo, forse c’era un po’ di stanca, un po’ di routine, e la vita di coppia sembrava noiosa e soffocante. 

Invece nel turbine di questa passione (per ora platonica) senti di far fatica a tenere il controllo. E allora – ti chiedi – dov’è la mia libertà?

Vivere una vita piatta e sentirsi prigionieri della noia o vivere di emozioni forti e sentirsi prigionieri delle passioni? Un bel dilemma.

Mi sento vuota. Che cosa mi rimane? Forse la possibilità della scelta. La possibilità di scegliere in ogni momento che persone vogliamo essere. È una libertà che nessuno ci potrà mai togliere. Lo diceva anche lo psicologo Victor Frankl mentre era in campo di concentramento. L’esercizio della libera scelta è ciò che rende tale l'essere umano.Essere dipendenti dalla propria relazione solo perché è quella scontata, o essere dipendenti dalla passione che ci porta di qua e di là come una banderuola sono due facce della stessa medaglia? Scegli di vivere il tuo matri- monio, perché mi pare che – anche se lo senti minacciato – ne riconosci ancora il valore. Ma non farti trascinare. Esigi di più. Esigi di più dalla tua relazione, non da tuo marito. L’intolleranza che senti verso di lui è il desiderio di stabilire con lui una relazione sempre più profonda.

Un’alleanza eterna, duratura, nel bene e nel male, anche nella sofferenza che stai vivendo. Lui è limitato, ma la vostra relazione ha possibilità infinite. Se necessario prenditi un po’ di tempo per stare da sola e riarmonizzarti nella mente, nel corpo e nello spirito. Può aiutarti a ritrovare un rinnovato equilibrio.

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IL FILM: PAROLE D'AMORE

22/2/2011

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Abbiamo già presentato Parole d’amore (Scott McGehee, David Siegel, 2005) per parlare della
ricerca della spiritualità (Sempre n. 6 giugno 2010). Ma c’è un altro livello di lettura, quello del padre (Richard Gere) che trascura la moglie e il figlio maggiore per dedicarsi in maniera troppo
ossessiva all’istruzione della figlia. 

Niente di male, per carità. In questo tempo in cui i fatti di cronaca sono intrisi di abusi ed incesti, un padre un po’ troppo attento alla preparazione di una figlia non è certo la cosa peggiore. Tuttavia lo squilibrio relazionale in famiglia sarà evidente nei suoi effetti, in quella moglie che prende una deriva compulsiva e nel figlio che è alla ricerca insaziabile di una spiritualità alternativa.

Il film è bello perché alla fine la figlia Eliza riuscirà con saggezza a restaurare un equilibrio. Ma nella realtà sarebbe meglio che i genitori non abdicassero alla loro funzione.

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NON SONO PIU' UNA BAMBINA!

22/2/2011

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PICCOLE DONNE CRESCONO. TALVOLTA I GENITORI SE NE ACCORGONO, ALTRE VOLTE NO. ALLORA CI PENSANO LE FIGLIE A METTERE I CONFINI, DOLOROSAMENTE. 


"In questo periodo mi sento un fallimento come padre– scrive Antonio da Milano–. La mia piccola Elisa (ha appena compiuto quattordici anni), la mia principessina di sempre, colei che da sempre mi chiamava “il mio eroe” non mi parla più. Da qualche mese è diventata scontrosa e irascibile. Tiene sempre il muso e ogni volta che cerco di parlarle mi dice: “Taci, che non sai niente!”. A scuola ha degli ottimi risultati, frequenta la parrocchia, è impegnata negli scout e ha compagnie sane... non sono preoccupato per questo. Ma mi spaventa vederla così fredda e arrabbiata nell’ambiente domestico. A pranzo e a cena si litiga sempre, non riusciamo più a ricreare quell’armonia e quella serenità di un tempo. Non capisco da dove derivi tutto questo astio nei miei confronti e (sebbene in misura minore) nei confronti di mia moglie».

Sai Antonio, la prima cosa che mi ha colpito della tua bella lettera – e che mi ha fatto sorridere– è stata questa “mia piccola Elisa” che sta per compiere... 14 anni!

Quando poi hai continuato con la “principessina” e tu “eroe”, ecco che le intuizioni cominciavano a trovare forma. C’è poi un altro fatto un po’ strano: spesso le ragazze (non “piccola”) a quella età diventano terribili con le mamme, non con i papà.

E allora la sensazione che ho sentito è che questa figlia il messaggio lo vuole dare a te. L’età è quella giusta. Il sogno di un mondo delle favole ormai è solo un ricordo. Il papà eroe, principe azzurro (sa un po’ di Edipo questa cosa) è ormai sfumato. Ormai ha ben chiari i tuoi difetti, i tuoi limiti, vuole raggiungere una visione reali- stica di te e della tua famiglia. 

Basta idealizzazioni, basta ragazze e famglie modello. Siamo reali, e ci incontriamo sui confini dei nostri limiti. Forse non te ne sei accorto e allora te lo grida. In te rimane la rassicurante immagine della bambina che ti tenevi sulle ginocchia e ti guardava con ammirazione. Antonio vedi, uno dei compiti del padre è quello di stabilire un contatto con la realtà e fissare dei confini, in questo caso i confini generazionali. Forse hai abdicato a questo ruolo ed Elisa ha dovuto sostituirti. Una sostituzione aspra però, a volte malposta, fuori dalle righe. Del resto, non era compito suo... 

Ristabilisci un contatto con tua moglie perché la percepisco molto sullo sfondo e chiedi a lei come rapportarti con tua figlia. Vedrai che saprà dirti qualcosa di illuminante. Comportati da padre e non cercare consolazione in tua figlia. Una padre vero, reale, che sa indicare la strada, che sa essere mentalmente presente ma che si sa spostare al momento opportuno per indicare la strada.

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SE SONO ARRABBIATO NON FUNZIONA

22/2/2011

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Caro Marco, da tempo leggo la tua rubrica e mi interessa soprattutto quando parli della differenza tra gli uomini e le donne perché mi ci ritrovo. Però mi dovresti spiegare – e un po’ quindi ti provoco – perché io a letto funziono secondo delle modalità che penso tu definiresti “femminili”. Cioè io non riesco a sganciare le mie “prestazioni” dall’andamento della relazione umana con mia moglie. Cioè se noi stiamo bene, riesco, ma se litighiamo, se siamo in un momento in cui non ci capiamo, ho un rifiuto del contatto con lei. Ma di solito non sono le donne che si fanno questi problemi e gli uomini che invece “sono sempre pronti”?

Angelo - via mail


Sì, è vero Angelo, solitamente si dice così e forse è anche l’esperienza della maggior parte delle coppie. Lei che si concede quando tutto è appianato e si lascia andare quando si sente in sintonia con il marito, lui che al contrario cerca la sintonia attraverso il rapporto fisico.

Però non mi stupisco che possa accadere anche il contrario e ti spiego il perché, facendo un ragionamento su due livelli: micro e macro.

La parte macro riguarda i cambiamenti degli stereotipi maschili e femminili degli ultimi decenni: la massiccia entrata delle donne nel mondo del lavoro, con lo sviluppo di parti quindi anche più “assertive” e la speculare scoperta della parte “tenera” che c’è anche in ogni uomo, ha permesso ad ognuno di esprimersi nei rapporti secondo modalità più personali e meno legate alla tradizionale durezza maschile e tenerezza femminile.

Questo però ha avuto anche alcuni effetti collaterali, per cui non è raro che un uomo sia a volte impaurito e bloccato dell’energia che sprigiona una donna e che una donna si senta poco attratta da un maschio troppo tenero e docile, che pure aveva sempre desiderato.Per quanto riguarda gli aspetti che ho definito micro, prova solo a riflettere su un paio di questioni: la prima riguarda l’ansia da prestazione, e cioè: chi ha più da rischiare se a letto le cose non funzionano? Io penso che permanga qui un paradossale retaggio del passato, e cioè il sentimento di inadeguatezza maschile, che si legge tra le tue righe, che ti fa pensare di non essere all’altezza. Poi pensa a ciò che succede durante un rapporto: alla fine chi si espone di più? Io direi l’uomo che, se si sente debole o non in sintonia, diventerà ancora più insicuro.

Ma il punto, caro Angelo, non è se sia normale quello che ti succede ma, come voi avete giustamente speri- mentato, fare in modo che i gesti del vostro corpo siano il più possibile in armonia con quello che di profondo costruite tra voi coniugi.

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IL FILM: LA GUERRA DEI ROSES

22/2/2011

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Paradossale commedia tragicomica, La guerra dei Roses (DeVito, 1989) illustra efficacemente come si può passare da una passionale storia d’amore, al raffreddamento, alla guerra e all’odio più distruttivo. Accade tra i due coniugi Rose, Oliver e Barbara, che Michael Douglas e Kathleen Turner interpretano in maniera molto realistica. 

A nulla valgono gli sforzi del riflessivo avvocato Gavin D’Amato, interpretato dallo stesso regista Danny DeVito per fare ragionare la coppia. I figli, gli amici, i colleghi assistono impotenti alla spirale distruttiva talvolta grottesca dei coniugi Roses che giocano al rialzo tra umiliazioni, dispetti, intenzionali disattenzioni. 


Un film leggero e pesante allo stesso tempo, da godersi nelle parti comiche, da riflettere nelle parti più drammatiche. Un film che provocatoriamente definirei “educativo” per imparare cosa “non” fare nelle relazioni, e il tragico epilogo, come la morale finale nelle novelle di Esopo, dovrebbe mettere in guardia tutti quelli che a volte giocano a farsi del male.

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HA COMINCIATO PRIMA LUI!

22/2/2011

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PER LITIGARE BISOGNA PER FORZA ESSERE IN DUE, PER COSTRUIRE LA PACE BASTA UNO. SUCCEDE TRA I PICCOLI MA ANCHE TRA I GRANDI. È COLPA SUA O SONO ANCH’IO CHE NUTRO LA GUERRA?
A quale genitore non è mai capitato di entrare in una stanza dove due fratellini si stanno azzuffando. Aprite la porta, vi chinate per dividerli con le buone maniere e già cominciano a sovrastarsi verbalmente e ad assordarvi: «Ha cominciato lui!». «No! Non è vero, è stato prima lui». Ma voi siete saggi e avete letto tanti libri di pedagogia: «Bene, dai, civilmente cerchiamo di capirci. Che cosa è successo “veramente”?» E comincia il balletto: «Lui mi ha dato un pugno!» «È perché lui mi ha tirato i capelli!» «Ti ho tirato i capelli perché mi hai detto che sono scemo». «Certo che sei scemo, mi facevi le linguacce!» e voi che sulle prime siete fedeli ai vostri principi pedagogici «Questo non si fa, quello non si dice, da bravi fratelli, vogliatevi bene!». Ma non c’è verso e alla fine non resta che dividerli: «Bene, visto che non sapete stare insieme, ognuno in camera sua!».

Impossibile fermare questo tipo di girotondo. A che serve trovare il punto di inizio quando il processo circolare è già attivato?

Succede la stessa cosa anche ai coniugi quando si attribuiscono le colpe: «Per forza sono nervosa, non mi stai mai vicino!». «Ci credo che non ti sto vicino, sei sempre nervosa!».

Un conflitto tra adulti, così come una più ingenua azzuffata tra piccoli, non vanno avanti se entrambi non mettono del carburante.

Vista in quest’ottica allora è più opportuno capire che cosa ognuno sta facendo per tenere in piedi il conflitto e cosa potrebbe fare per sgonfiarlo. Per litigare infatti bisogna essere necessariamente in due, ma per la pace basta che uno interrompa il circuito perché anche le azioni dell’altro diventino inef- ficaci.

Assomiglia quello che a livello internazionale i teorici della pace chiamano “disarmo unilaterale”.

Con le dovute misure per salvaguardare la loro integri- tà, educhiamo i nostri figli, fin da piccoli, ad amare il con- fronto ma a non lasciarsi irretire nelle spirali di annienta- mento dell’altro. Ne faremo dei piccoli costruttori di pace.

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DALLE STELLE ALLE STALLE

22/2/2011

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Ciao Marco, sono appena tornato da due giorni stupendi al deserto organizzato dalla mia parrocchia. Un’esperienza forte, di unione e di senso di appartenenza attraverso la preghiera. Abbiamo finito l’adorazione alle 22 e sono andato a casa da mia moglie. Non ho fatto in tempo a salire in casa che mi ha segato: «Devo ancora finire di riordinare. Ho ripassato con tuo figlio fino alle nove, con gli altri da mettere a letto. E tu dov’eri?». Non mi aveva nemmeno salutato, tanto meno abbracciato o solamente sorriso. Vabbè, faccio anche a meno di tutte queste romanticherie, ma lo sbalzo tra il paradiso in cui ero e l’inferno in cui mi sono trovato mi fa seriamente pensare...

(via mail)



Sento il tuo dolore e ti sono vicino. Sì, è esperienza comune, quando si cade dal Paradiso si rischia di sentire un maggior dolore. Si cade da più alto. Naturale! Quando si vola a rasoterra, senza tante pretese, vivacchiando, un’accoglienza del genere rientra nella norma: «La solita brontolona... vabbè mi piazzo davanti alla tivù e la lascio sfogare, chissà che le passi in fretta...»

Ma quando si è immersi in un clima “paradisiaco”, ci si aspetta un’incontro profondo, magari una condivisione delle cose belle che si sono vissute.

«Com’è andata caro? Che cosa avete meditato? Cosa ha detto il sacerdote? Hai pensato a qualcosa rispetto alla nostra vita?» Desiderio legittimo ma non scontato. Allora è facile scoraggiarsi, e a volte anche diventare cinici anche rispetto alla vita di fede: «Sì, col cavolo che vado ancora al deserto, la prossima volta vado a giocare a biliardo come fanno tutti i miei amici. Essere rimproverati quando si va al bar, ci sta, ma per un momento di preghiera... è troppo!».

Carissimo, dove splende la luce le ombre sono meglio visibili.

E' naturale che tu veda e soffra gli attriti che ci sono nella tua famiglia.  Sento molta delusione. Don Oreste ci ricordava sempre che la delusione è figlia dell'illusione.
E allora di che cosa ti eri illuso? Che pregando tutto si trasformasse magicamente? Che le tue emozioni si anestetizzassero? Che quello che avevi lasciato irrisolto si risolvesse? Che magari ci fosse una sanatoria rispetto alle disattenzioni e alle assenze degli ultimi mesi? Ahi ahi ahi...

Non è il mio campo, ma non mi risulta che la preghiera tolga le normali difficoltà della vita; mi risulta piuttosto che aiuti a vedere le difficoltà in un’altra ottica. L’ottica di chi sa che può contare sulla speranza, sulla vicinanza di Dio, sulla capacità di non spaventarsi e di non lasciarsi sopraffare dalla disperazione, di rilanciare sempre. Chi ti potrà impedire di amare di più? Di amare nonostante la delusione? Di amare per primo? Di cercare di accogliere prima che di essere accolto?
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    AUTORE

    Marco Scarmagnani
    giornalista e
    consulente familiare

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    che scrivo su Sempre
    e articoli scritti
    per altre riviste.
     


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