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RICEVO SOLO DISPREZZO

10/1/2011

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SE CERCHI APPROVAZIONE METTI IL CAPO SOTTO LA GHIGLIOTTINA DEL GIUDIZIO DELL'ALTRO

Caro dott. Marco, il mio problema è questo: quando ho conosciuto mio marito era molto carino. Mi faceva complimenti per ogni cosa: per come mi vestivo come per i miei risultati sportivi. Poi gli anni passano, arrivano i figli, bisogna crescerli e la vita diventa sempre più dura. Pare che crescendo cali il carico familiare ma non è così. Diventano adolescenti, aumentano le discussioni, le preoccupazioni. E io sono sempre quella che sbaglia! La cena non è pronta, non va bene questo, non va bene quell’altro, non parlo nel modo giusto con i miei figli, li “diseduco”. Mio marito mi fa pesare ogni difetto. Non che sia cattivo, ma divento cattiva io e a volte esplodo. Mi prende l’angoscia ogni volta che torna a casa. Non so che fare, mi piacerebbe farmi una bella vacanza da sola, o separarmi. Le mie amiche non sposate mi paiono molto più serene... Non so che dire.

Clelia

Carissima Clelia, sei spaventata per quello che ti sta succedendo, i pensieri si accavallano e cerchi una via d’uscita, anche estrema.

Sei delusa da tuo marito e dalla tua relazione con lui. Perché? Semplice: perché ti eri illusa! Ogni illusione porta con sé il rischio – anzi la certezza – della delusione. È un’arma a doppio taglio, come cercare l’approvazione degli altri.

Costruire una relazione sul bisogno di approvazione dell’altro significa mettere il capo sotto la ghigliottina del suo giudizio. E così è successo. Quando eri stimata ti sentivi felice, ora che vengono sottolineati aspetti che non ti piacciono ti senti attaccata.

Guarda, qui non parliamo di tuo marito. Forse effettivamente è troppo brontolone, un po’ nevrotico, forse pure ingrato verso di te. Ma siccome sei stata tu a scrivere
ti do alcuni spunti che ti possono essere utili a prescindere da lui.

Allora, Clelia, prima di tutto chiediti perché in te c’è questo bisogno di approvazione. Che cosa devi dimostrare? A chi? Sei così anche nelle altre relazioni? Eri così anche con i tuoi genitori? Facevi sport per far vedere agli altri quanto valevi?

Quando noi riceviamo una critica anche fastidiosa – tipo “non sai cucinare” – abbiamo due possibilità.
O ci mettiamo ad analizzarla secondo il criterio vero/falso, e
quindi cerchiamo di dimostrare che non è vero, o – se è vero – ci demoralizziamo.

Oppure la interpretiamo come una proposta di relazione. Sicuramente poco carina ma è sempre una proposta. Watzlawick diceva che ogni comportamento è una forma di comunicazione.

E allora prova a capire che cosa vuol dire tuo marito. E capire che magari lui si può sentire trascurato, o non capito, o frustrato. E non necessariamente la colpa è tua, non sei solo tu che devi cambiare il tipo di relazione. E nemmeno solo lui.

Bisogna sempre essere in due per relazionarsi, in due per detestarsi, e in due per amarsi.

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UNA MAMMA INADEGUATA

10/1/2011

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NON È FACILE FARE I GENITORI QUANDO SI È MESSI IN DISCUSSIONE DAI FIGLI. EPPURE È IL MOMENTO NEL QUALE HANNO BISOGNO DEGLI ADULTI E DELLA LORO FORZA D’ANIMO


Si sa, i figli spesso si lamentano dei genitori. Fa parte del gioco: a volte mamma e papà sono i più bravi del mondo, altre volte sono i peggiori. Nell’adolescenza – in particolare – la critica dei modelli familiari, serve ai ragazzi per trovare lo slancio necessario e staccar- si, per riuscire a progettare una vita pro- pria. È un passaggio doloroso ma sano.

Anita invece ci scrive di una figlia di 7 anni che «Mi dice che non l’ascolto mai. È sempre imbronciata, anche davanti agli altri, in pubblico, e questo mi fa imbestialire. Vedo le altre bambine con le loro mamme che sono carine, passeggiano mano nella mano, discutono. La mia sempre a farmi fare figuracce! »

E stai proprio male. Tua figlia che ti sbatte in faccia le tue vere o presunte mancanze è una pugnalata. E ti dici: se adesso è così figuriamoci tra qualche anno!
 «Mi sono convinta di non essere tagliata per fare la madre».

Ma come Anita? Tua figlia ti chiede aiuto e tu ti ritiri?
 Senti, questo è un momento nel quale tua figlia ha particolarmente bisogno di te, e tu sei per lei preziosa ed indispensabile. Perché? Perché altrimenti non ti manife- sterebbe così il suo disagio.

Un disagio c’è, è vero, ma non devi sentirti inadeguata, in colpa, perché il senso di colpa blocca le energie vitali e non ti permette di sintonizzarti su tua figlia.

La guerra di Mario (Antonio Capuano, 2005) parla di un ragazzino difficile, con un passato di violenze, che proviene da una zona degradata alla periferia di Napoli. Viene affidato ad una coppia benestante. La mamma (Valeria Golino) è convinta che “Mario non vuole essere educato, ma accolto” e così il film si gioca in una contrapposizione tra la necessità di educare e quella di lasciare libero. Ma chi l’ha detto che le regole in educazione siano solo una gabbia che limita la libertà? Educare significa anche contenere, condurre, indirizzare al bene. L’assenza di limiti, anche nel film, è un fallimento educativo.

Prova, invece che inadeguata, a sentirti responsabile di tua figlia e del suo malessere.
Responsabile significa “abile a rispondere”.

Solo alcuni spunti per farti riflettere. Il primo: coinvolgi tuo marito. Perché non me ne parli? Potrebbe essere molto salutare la relazione con lui. Metti un po’ di maschile all’interno di quella relazione tutta al femminile con tua fi- glia. Fai spazio alla sua forza, a volte al suo essere un po- chino selvatico, per alleggerire probabilmente un eccessodi fusione. Fallo essere presente come tuo sposo, così tua figlia ti ammirerà.

Secondo: chiediti che figlia sei stata tu. Eri ribelle come lei? Allora procede tutto secondo copione. Eri l’esatto contrario, cioè sempre remissiva? Allora forse c’è un po’ di invidia e di fastidio per quello che fa tua figlia, perché tu non hai mai potuto permettertelo. Chiedi a tua madre – se c’è ancora – e ti sarà di aiuto per conoscere la tua storia.

Terzo ed ultimo: chiediti perché quando ricevi una lamentela la tua autostima vacilla. Tua figlia non ti ha detto che tu sei incapace di ascoltare, ma che non si sente capita. C’è una bella differenza!
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CASALINGO DUBBIOSO

10/1/2011

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SPESSO E' UNA LOTTA DI POTERE DECIDERE A CHI SPETTANO LE FACCENDE DOMESTICHE

Caro Marco, ho ventitre anni e ho scelto di vivere in una casa famiglia. È un’esperienza entusiasmante che mi riempie il cuore e dà senso alla mia vita. Accogliere ragazzi in difficoltà, per periodi brevi o lunghi, condividerne la vita, mettere tutto questo in un’ottica di fede... Fantastico! C’è però un punto che mi piacerebbe chiarire, e non vorrei essere frainteso. Riguarda le faccende domestiche... Guarda, non sono un maschilista che pensa che le debbano fare solo le mie “sorelle” ma io le vivo con particolare insofferenza, e un po’ mi vergogno. Penso ai miei coetanei che studiano o lavorano, e io qua a fare i letti. Mi sento a disagio, la gente potrebbe pensare di me che non ho niente da fare, o che non sono abbastanza uomo. Mi chiedo se non sarebbe meglio che io andassi a lavorare. D’altronde tutti i papà lavorano... Ah, qualche giorno fa ho parlato con un altro che vive in casa famiglia con sua moglie. Lui è sposato ma... non è che la faccenda la vede tanto diversamente da me!

Pietro - da e-mail


Caro Pietro, molti di coloro che fanno la tua esperienza hanno gli stessi tuoi pensieri: «Vivere in casa-famiglia? Bello, originale, spiritualmente appagante, ma... non starei meglio se potessi anche lavorare? »

È una domanda sana, semplice, ma che richiede una risposta un po’ articolata. Bisogna infatti tenere conto di almeno due piani: il primo è il piano – definiamo- lo – sociologico. Tutti gli uomini lavorano, siamo stati giustamente educati al fatto che bisogna lavorare (anche San Paolo ricorda che “chi non vuol lavorare, neppure mangi”), e se non lo facciamo ci sentiamo pesci fuor d’acqua. È una questione di modelli. Il modello del “maschio lavoratore” è ben presente, per quello del “papà di casa famiglia” bisognerà aspettare. E chi vive in casa-famiglia in realtà non è che non “lavori”. Il secondo aspetto – non completamente slegato dal primo – è quello più legato al genere, al tuo essere maschio.

È acquisizione ormai comune che le donne e gli uomini vivano la casa in maniera differente. Non che per questo svolgano con allegria le faccende domestiche, anzi! In genere sono una seccatura per entrambi in sessi, e spesso è la lotta di potere che determina chi le svolgerà. Ma non è questo il punto. La vera differenza sta in come si vive la casa. Per le donne la casa è una specie di prolungamento di sé, è un ambiente che deve essere in armonia, e per questo ci tengono di più al fatto che sia bello, accogliente, di un ordine che riflette un ordine interiore. Per un uomo in genere la casa ha un valore funzionale: è il posto dove si mangia, si dorme, si sta insieme. Se faccio i lavori, per esempio di giardinaggio (guarda caso: all’esterno!) li faccio per avere la soddisfazione di vedere quanto sono abile. Tenuto conto di queste differenze – caro Pietro – non ti resta che discutere insieme alle persone che vivono con te – tenendo conto delle necessità delle persone che avete accolto – gli spazi e i tempi per vivere le faccende domestiche e un eventuale lavoro esterno. Ma che sia una crescita di tutti, della vostra famiglia, non una fuga!
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FRATELLI DIVERSI

10/1/2011

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AVERE FIGLI ADOLESCENTI ED ACCOGLIERNE DI COETANEI IN AFFIDAMENTO PUÒ METTERE IN SUBBUGLIO ANCHE LA FAMIGLIA PIÙ NAVIGATA. COME MUOVERSI TRA RIGIDITÀ E TOLLERANZA?



Già negoziare le regole con i nostri figli adolescenti è impresa ardua, che a volte coinvolge la famiglia in una lotta senza quartiere che vede l’un contro l’altro armati: marito e moglie, suoceri e consuoceri, i figli e pure i loro amici; sì perché i ragazzi sono bravi a giocare a: «Ma perché i suoi genitori lo lasciano e voi non mi lasciate?» e con il «Chiedilo a tuo padre» o «Chiedilo a tua madre».

La faccenda si complica non poco quando ci riferiamo a famiglie allargate, a quelli che scelgono di aprire la propria casa per accogliere in affidamento altri ragazzi.

Che fare quando – e capita sempre più spesso – viene chiesto ad una famiglia di accogliere un 15enne?

Succede per esempio ad Anna che scrive, tra le altre cose, che «non sappiamo più come fare, io e mio marito. Proprio adesso che sembrava avessimo preso le misure con i nostri figli (abbiamo una femmina di 17 anni e un maschio di 13, si immagini!) abbiamo scelto di prendere in affidamento temporaneo un ragazzo di 15 anni. Lui si lamenta perché non gli lasciamo fare cose che lasciamo fare ai nostri. I nostri si lamentano perché a volte si sentono limitati da lui... un caos».

Puoi scegliere tra due strategie. Nella prima usi una livella: “La legge qui è uguale per tutti!”. Non ci sono più età, sesso, essere figli naturali o accolti, gusti personali... tutti uguali, così ognuno si adatta e nessuno è scontento.

È uno stile – diciamo bonariamente – da “caserma”, che ha il vantaggio di essere molto funzionale e facile da argo- mentare: questa è casa nostra, noi abbiamo scelto così, chi ci sta ci sta, agli altri... arrivederci. A meno di una insur- rezione dal basso, dovrebbe funzionare. Se invece – cara Anna – vuoi cimentarti in qualche cosa di più pedagogico, devi essere in grado con tuo marito di negoziare quoti- dianamente le regole con ognuno. Un trattamento per- sonalizzato sicuramente più impegnativo ma anche piusoddisfacente. Imparerete a vivere così la vostra “funzio- ne” genitoriale. Sapete qual è la differenza tra un “ruolo” e una “funzione”? Il ruolo è una attitudine che rimane fissa, immutata: «Ho detto così e resta così!» La funzione invece è l’esercizio della propria genitorialità che si sintonizza con le attitudini e le fasi della vita del figlio, orientandolo in maniera fluida. E così ciò che è giusto per l’uno potrebbe essere prematuro o inopportuno per l’altro. È più laboriosa – è vero – perché richiede la pazienza di spiegare (e di sostenere) ogni presa di posizione, ma aiuterà tutti i tuoi ragazzi ad assimilare le regole e a diventare tuoi collaboratori, e soprattutto ad essere considerati in maniera personale, come il pastore che conosce le pecore ad una ad una. Siete forti, senz’altro ce la farete!
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A CENA CON I MIEI FRATELLI

10/1/2011

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MOLTI CHIEDONO UNA CONSULENZA, MA CERCANO UN GIUDICE

Gentile dottore, le confesso a volte non ne posso proprio più! Ho organizzato una cena con mia madre e i miei fratelli, tutti sposati, e mio marito mi ha riempito la testa con un sacco di discorsi inutili: «Ma che bisogno c’è? Che cosa vi dovete dire che io non posso sentire? Guarda che la tua famiglia adesso è questa...». È sempre stato un tipo possessivo ed ho dovuto spesso sopportare le sue inutili gelosie. Ma – cavoli – qui si tratta dei miei fratelli, non ho mica l’amante. È un po’ una rimpatriata, lo stare insieme tra noi con la mamma creando un clima di intimità che non si crea quando ci sono le famiglie e i figli di tutti. Che ci sarà di male?

Nella - Udine


Che ci sarà di male? Niente Nella. Sicuramente non c’è niente di male. E allora diciamo che tuo marito è esagerato e che tu hai ragione. Ok?

E adesso ti chiedo come ti senti. Sollevata? Finalmente qualcuno che ti dà ragione? Che ti capisce? O ancora più arrabbiata? Il vostro è lo stato d’animo di molte persone che credono di chiedere una consulenza e invece cercano un giudice. «Avrò ragione io o avrai ragione tu? Quando andiamo dal dottore vedrai cosa gli dico e come te le canta! »
 In realtà si cerca qualcuno che dia senso alla sofferenza del non capirsi.
 Che cosa significa che tuo marito è sempre stato possessivo? Che ti vuole tutta per sé? Quest’ultima definizione penso che possa piacerti di più, è molto roman- tica. In realtà stiamo parlando di insicurezza, probabilmente dovuta ad una storia molto antica che non ti riguarda, ma che adesso riemerge nell’assetto relazionale della vostra coppia.

Che fare allora?

Se questo fatto scatena dei sintomi come scenate incontrollate, notti insonni o rancori che durano più giorni vi invito ad intraprendere un percorso con uno specialista che vi potrà aiutare a dare un senso e a lenire le vostre sofferenze.

Se invece il problema ha un impatto più contenuto gli puoi chiedere di spiegarti cosa gli dà dispiacere, ma mossa da una curiosità sincera. Questo lo farà sentire capito, e a quel punto il problema sarà già metà risolto. Non attaccarlo per le sue debolezze, perché altrimenti potrebbe irrigidirsi maggiormente, ma spiegagli con calma il significato che per te ha ricongiungerti un po’ con la tua famiglia.

A proposito Nella, non è che per caso esci con la tua famiglia e ma- gari per lui non hai mai tempo? Non è che quando chiama lui sbuffi e quando chiamano i tuoi familiari sei raggiante? Perché se ho indovinato con queste due ultime domande... la strada da prendere la capisci anche da sola. E vedrai che non ci vorrà molto a mettere tutto a posto!
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VOGLIA DI TRASGREDIRE

10/1/2011

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L’ADOLESCENZA È L’ETÀ DELLA TRASGRESSIONE PER ECCELLENZA. SE NON SI TRASGREDISCE DA GIOVANI – DICONO ALCUNI – CI SI RIFÀ PIÙ AVANTI. MA QUAL È IL VERO SIGNIFICATO DELLA TRASGRESSIONE?


L’appuntamento è per le 20.45, nei locali della parrocchia. Non si può certo dire un luogo trasgressivo, ma
il titolo è accattivante: “Eccesso e trasgressione, qual è il nostro bisogno?”. Droga e/o canne, sesso, alcool, fumo, piercing, tatuaggi, orari serali assurdi, lo sballo... queste le trasgressioni dal primo brain-storming, con qualche distinguo: «Il fumo non è trasgressione, il sesso a volte sì e a volte no», ecc. Ma perché la trasgressione? «Per provare nuove esperienze – dicono – per scoprire i nostri limiti, perché ci attira “il proibito”, per evadere dalla noia e dalla routine, per scommessa».

È certo che l’adolescenza è l’età della trasgressione per eccellenza. È un desiderio di mettere alla prova i propri limiti e soprattutto dichiarare la propria indipendenza. È inoltre opposizione alle regole precostituite: il “sistema” da abbattere, sfidare la legge e la morale. Ma c’è un altro approccio: le regole di questo mondo non sono necessariamente e sempre “il massimo bene”. Don Oreste Benzi, nel suo libro “Trasgredite” (Mondadori, 2000) inserisce questa simpatica storiella: «L’inferno era al completo ormai, e fuori dalla porta una lunga fila di persone attendeva di entrare. Il diavolo fu costretto a bloccare tutti i nuovi aspiranti. “È rimasto un solo posto libero, e logicamente deve toccare al più grosso dei peccatori – proclamò – c’è almeno qualche pluriomicida tra voi?”.

Per trovare il peggiore di tutti, il diavolo cominciò ad esaminare i peccatori in coda.
“Che cosa hai fatto tu?” chiese ad uno.
“Niente. Io sono un uomo buono e sono qui solo per un equivoco”.
“Hai fatto certamente qualcosa”, ghignò il diavolo “tutti fanno qualcosa”.
“Ah, lo so bene – disse l’uomo, convinto – ma io mi sono sempre tenuto alla larga. Ho visto come gli uomini perseguitavano altri uomini, ma non ho partecipato a quella folle caccia. Come lasciano morire di fame i bambini e li vendono come schiavi; come hanno emarginato i deboli come spazzatura. Non fanno che escogitare perfidie e imbrogli. Io solo ho resistito alla tentazione e non ho fatto niente. Mai.”
“Assolutamente niente? – chiese il diavolo incredulo – Sei sicuro di aver visto tutto?”
“Con i miei occhi”. “E non hai fatto niente?” ripeté il diavolo. “No!”
Il diavolo ridacchiò: “Entra, amico mio. Il posto è tuo!”»

Il coraggio di non starsene a guardare ma lottare per un mondo migliore. Questa è una bella trasgressione verso la quale incanalare i giovani che vogliono fare qualcosa di veramente “alternativo”.
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EMPATIA VUOLE DIRE CEDERE?

7/1/2011

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EMPATIA E' L'ESATTO CONTRARIO DI UN ATTEGGIAMENTO DI DEBOLEZZA

Caro Marco, il mese scorso, rispondendo alla nostra lettera, ci hai detto che le soluzioni reciproche ai nostri bisogni vanno trovate attraverso “un percorso empatico, non tecnico”. Non ci crederai ma io e mia moglie siamo riusciti ad aver da ridire anche sull’interpretazione delle tue parole. Che cosa significa “essere empatici”? Noi l’abbiamo interpretato come “darci ragione” e quindi, in qualche maniera, che ognuno deve cedere. Questo ci ha molto irritati. Vuol dire che ci dobbiamo bere ogni cosa che l’altro/a ci dice? Scusa se siamo un po’ contorti o se ci siamo spiegati male.

Lino - via mail


Lino hai ragione! Frasi corte e semplici per affrontare temi delicati e complessi rischiano di diventare slogan incomprensibili. E allora sviluppiamo un po’ il tema dell’empatia, ed in particolare parliamo di che cosa significa essere empatici verso il coniuge nel corso di una discussione.

L’empatia – definizione da enciclopedia – è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti consoni. È quello che con parole più semplici si dice “mettersi nei panni dell’altro”.

Empatia – suvvia ragazzi – non significa assolutamente “darla vinta” ed è l’esatto contrario di un atteggiamento di debolezza.

Solo chi è forte infatti riesce, nel corso di una discussione che lo coinvolge, a mettere un attimo da parte la sua posizione e a prendere in considerazione i sentimenti e i bisogni altrui.

Ciò che la muove è il rispetto e la curiosità. Il rispetto è verso la persona che ho di fronte, che ho scelto di amare “sempre, nella salute e nella malattia” e quindi – perché no – anche quando la pensa diversamente da me.

La curiosità deve essere sincera. Ognuno si chieda dentro di sé: «Ma perché lui la vede così? Perché reagisce in quella maniera? Quali sono le sue paure? I suoi bisogni?» È un modo stupendo per interrogarsi sul mistero che il coniuge ogni giorno ci offre. E un ottimo modo per avere sempre qualcosa da scoprire.

Quanti sposi si inaridiscono perché “non hanno più niente da dirsi”. Quando si parla sempre delle solite cose, o quando alla fine non si parla più, è perché si è rinunciato al dialogo profondo. «Sono fatto così, sono fatta così» è un veleno terribile che rinsecchisce la creatività. L’immagine che ci si è creati diventa la maschera e la prigione.

Liberatevi, Lino, di queste catene e tuffatevi nel mare di libertà che potete donarvi. Amare la persona per quello che è, capirla, non è accontentarsi ma scegliere di incamminarsi in un viaggio avventuroso ed infinito.
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EDUCAZIONE SESSUALE O GENITALE?

7/1/2011

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NELLE SCUOLE SI PROPONE L’EDUCAZIONE SESSUALE. MA A VOLTE È PURA INFORMAZIONE GENITALE E ANTICONCEZIONALE. A CHE COSA DEVONO ASSISTERE I NOSTRI RAGAZZI?


«Insegno in un Liceo – scrive Marina di Trento –. E la settimana scorsa ho avuto occasione di assistere ad un’as- semblea di istituto per parlare di affettività e sessualità. Sono stati illustrati in lungo e in largo i vari sistemi anticoncezionali, e si sono biasimate le famiglie “bigotte” che non educano alla sessualità responsabile e che poi allora si trovano le figlie incinte. Forse è perché ho un’altra età, ma non mi pare che sia questo il modo di affrontare l’argomento». E per fortuna non sei l’unica a pensarla così, cara Marina. È solo l’inizio della tua lunga lettera nella quale suggerisci di parlare anche dell’affetto che lega due persone, di scelte, di valori.

È vero, l’educazione sessuale ha preso in molti contesti una deriva “genitalistica e anticoncezionalistica” e rischia di ridursi solo alla spiegazione di un fatto meccanico. Non si tiene conto che si fa cultura anche dal modo in cui si affrontano questi argomenti. Se ad un’assemblea di studenti (quasi tutti minorenni peraltro) li tratto dando per scontato che loro siano “sessualmente attivi” che messaggio lancio? E come si sentiranno quelli che – per scelta o per mancanza di occasioni – non lo sono? Forse persone che stanno perdendo l’occasione di fare qualcosa di veramente interessante!

Gli adolescenti sono già curiosi e trasgressivi per natura e certe prese di posizione possono essere molto pericolose.

La sessualità – bisogna farlo capire ai giovani ma a quanto pare anche a certi adulti – non è un esercizio ginnico condito con un po’ di componente emotivo-affettiva.

Dov’è finita la trepidazione, l’attesa, il limite, il confine? Pare che in nome della “libertà” ognuno sia libero di sperimentarsi come meglio crede, con chi vuole, quando vuole. Certo che con un training così non c’è da stupirsi se quando questi giovani crescono non riescono a tenere una relazione stabile. Non occorre nemmeno tirare fuori discorsi di valore; banalmente si può prendere a prestito la prassi sportiva dell’allenamento per raggiungere una performance. Così è per lo stile di relazione: se mi alleno all’attesa, alla fedeltà e all’affidarmi, penso che diventerò paziente, fiducioso e rispettoso dei tempi di ognuno. Se mi alleno a prendere al volo ogni emozione, è logico che una persona non mi basterà per far fronte agli stimoli e ai cambiamenti che la vita presenta. L’apice dell’espressione della sessualità si chiama – non a caso – “rapporto”. E costruire un rapporto è faccenda delicata, affascinante, da adulti. Riscoprire il valore etico, spirituale, valoriale dell’educazione sessuale non è da bigotti. È un grande dono che possiamo e dobbiamo fare ai nostri ragazzi.
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UN UOMO IN CARRIERA

7/1/2011

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PIU LEI E' ANSIOSA E PIU' LUI SI SENTE FRUSTRATO E COMPRESSO, PIU' LUI E' FRUSTRATO PIU' LEI SI SENTE ANSIOSA E SOLA.

Caro Marco, io e mia moglie spesso ci troviamo a discutere sul differente peso che diamo al lavoro. Per me è un importante momento di realizzazione personale con tempi variabili, possibile accettazione di mobilità e di compensi incentivati, per lei momento di sicurezza familiare però da incasellare in schemi rigidi e precisi tanto da ‘bollare’ il mio approccio come disinteresse verso la famiglia. A volte questo non ci permette di essere sereni, e ogni cambiamento di programma viene vissuto come una tragedia. Avremmo bisogno di qualche spunto di riflessione.

Lino e Tiziana - via mail

Che cos’è la professione? Un modo per guadagnare il pane quotidiano? Un ambito di realizzazione? Un indicatore dello stato sociale? Forse tutte queste cose insieme e forse ancora di più.

Cari Lino e Tiziana, vi assicuro e vi rassicuro che è piuttosto comune che tra coniugi si presentino dinamiche come le vostre. In molte famiglie lui vorrebbe dedicarsi anima e corpo al lavoro e sente che lei mette una sorta di lazo attorno al suo collo per richiamarlo agli impegni familiari. E le immagini che hanno l’uno dell’altra sono speculari e distorte. Lui vede lei come una tiranna capricciosa che invece di ringraziarlo per quanto si sacrifica lo rimprovera; lei vede lui come un inaffidabile che si appassiona per ogni
nuova opportunità lavorativa e non altrettanto per la famiglia.

A questo punto come vi sentite? Frustrato e ansiosa.

E queste due posizioni tendono a rinforzarsi in un circolo vizioso piuttosto noto: più lei è ansiosa e più lui si sente frustrato e compresso, più lui è frustrato più lei si sente ansiosa e sola.

E così lei: «Non ci sei mai! Questa casa non è un albergo!». E lui: «Sei soffocante! I miei colleghi sono ancora al lavoro!». E ognuno porta esempi a sostegno della sua tesi, gli amici che più fanno comodo, le teorie psico-pedagogiche tirate per la giacchetta: «È la qualità del tempo che conta!», o «Le famiglie più sane concordano i tempi».

La domanda che invece si deve fare Tiziana sarà: «Che posso fare perché Lino si possa realizzare come piace a lui? » E Lino: «Di quali rassicurazioni ha bisogno Tiziana per non sentirsi sola? »

Queste domande non vi risolveranno il problema ma vi permetteranno di impostarlo nel giusto modo. Attenzione però! Le soluzioni trovate dovranno arrivare attraverso un percorso empatico, non tecnico. Sarà infatti dalla percezioni di essere stati capiti che vi deriverà la sicurezza, e quindi la disponibilità al cambiamento.

L’accordo è una delle poche esperienze nelle quali il viag- gio è più importante della meta.
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SONO STATO ADOTTATO?

7/1/2011

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È GIUSTO DIRE AD UN BAMBINO CHE È STATO ADOTTATO. SE SÌ QUANDO? COME? CHI SOFFRE DI PIÙ? LUI O NOI?

Io e mio marito abbiamo adottato un bimbo e fin da quando era appena nato vive con noi – scrive Anita di Bari –. Le persone che sono intorno a noi (amici, parenti, cuginetti) sanno che non è nato “dalla mia pancia” e quindi prima o poi verrà fuori l’argomento. Lui ci chiama “mamma” e “papà” naturalmente. Il consiglio che vorrei è questo: secondo te quando è il momento giusto per affrontare l’argomento? Penso che sarebbe meglio dirglielo il prima possibile».

Bene Anita, sei già a buon punto, in quanto fino a non molto tempo fa molti si chiedevano se fosse opportuno dire ad un figlio che era stato adottato. Oggi, complici i passi compiuti dalla psicologia, dalla pedagogia e dal buon senso di molti genitori adottivi, ci si preoccupa piuttosto del “come” e del “quando” dirlo.

La cornice è questa: la verità è una medicina molto potente che può lenire molti dolori.

E qui non parliamo solo del dolore del bambino, ma anche del dolore che la verità potrebbe arrecare ai genitori adottivi. Parlare di un’altra mamma, di un’altra pancia, di una situazione di disagio che ha portato all’abbandono... sono temi – cara Anita – che fanno soffrire prima di tutto noi adulti. E quindi il percorso va intrapreso nel duplice senso: la verità per permettere al bambino di connettersi ad una storia di vita tortuosa ma “sensata” e una verità perché la coppia adottiva possa – nel corso degli anni – metabolizzare la storia della relazione con questo bambino.

Quando? Sempre. Come? Nel modo più naturale possi- bile. Penso che non ci debba essere un momento preciso in cui si dice che è stato adottato; lui deve crescere nella consapevolezza di questa sua condizione, commisurata al suo modo di comprendere. Non andrà assillato con il continuo ricordagli della sua condizione di bambino adottato allo stesso modo che una mamma non continuaa dire ad un bambino “tu sei mio figlio, ricordatelo!”. Piuttosto, tu e tuo marito, dovrete vivere sempre con
 questa consapevolezza che il vostro non è un gioco a “fare finta che...”, dovrete soprattutto essere pronti alle sue domande, che saranno diverse a mano a mano che lui crescerà e sarà in grado di capire, di concettualizzare. Certo, ci saranno anche delle difficoltà e delle provocazioni, ma nella verità le difficoltà che vivrete non saranno più intense dalle difficoltà che incontrano i genitori con i figli naturali. Riguarderanno l’autonomia e la dipendenza, l’appartenenza e il distacco, temi che ognuno di noi deve affrontare per diventare ogni giorno sempre più uomo, sempre più donna.


Cinema, carriera e famiglia
Interessanti spunti sulla gestione della dinamica famiglia/lavoro vengono dal cinema. Solo per citarne alcuni tra i più trovabili: l’intramontabile The family man (Ratner, 2000) racconta una favola moderna su affetti e professione, La febbre (D’Alatri, 2005) racconta della dinamica tra lavoro passione e lavoro preconfezionato. In tutti spicca una passione particolarmente maschile per la carriera. Se si vuole qualcosa di più declinato al femminile si può guardare Il diavolo veste Prada (Frankel, 2006), mentre tutta la famiglia si può divertire con il cartone della Pixar Gli incredibili del 2004.
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    AUTORE

    Marco Scarmagnani
    giornalista e
    consulente familiare

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    che scrivo su Sempre
    e articoli scritti
    per altre riviste.
     


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