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MIO FIGLIO MI TRATTA MALE

18/2/2011

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MASCHIETTI CHE TRATTANO MALE LE MAMME. 
STRONCARLI? PUNIRLI? O EDUCARLI? VEDIAMO.


"Caro Marco, sono la mamma di un bambino di 6 anni che mi dice un sacco di parolacce – ci scrive preoccupata Luciana. A scuola, con gli altri, è sempre buo- no, rispettoso, disponibile, ma con me dice cose pesanti. Sono preoccupata che anche la sua sorellina di un anno impari a comportarsi così. Con l’altra –
che ne ha 11 – non ho mai avuto questo problema.» 

Beh, cara Luciana, di motivi per essere un po’ arrabbiato direi che ne ha un bel po’. Proviamo a fare delle ipotesi in modo da poterti aiutare, ma anche di aiutare lui perché – non dimentichiamolo – un bambino che tratta male la mamma si sentirà poi terribilmente in colpa. Il senso di colpa lo renderà ancora più arrabbiato, e si attiverà un circuito rabbia-senso di colpa per nulla piacevole.

«Sono stato per ben 5 anni il “piccolo” di casa – potrebbe essere la sua versione dei fatti – , e questo posto non me lo toglieva nessuno. È vero, la sorella grande un po’ mammina e saputella come tutte le sorelle maggiori, ma io ero un maschietto e quindi il preferito di mamma. Poi mi arriva un’altra femmina e mi crolla il mondo addosso.»

È evidente, la prima resterà sempre la prima, la più grande, magari la più responsabile, la nuova nata con il suo bisogno di cura calamiterà l’attenzione della mamma, e lui che posto ha? «Non sono il più grande, non sono più il piccolino, non posso essere utile come mia sorella, che faccio adesso?». Naturale! Se la prende con la mamma!

E ciò potrebbe essere rinforzato da un altro fattore: «E il mio essere maschietto? Dove lo mettiamo? Ok, non sono come le mie sorelle, non sono nemmeno come la mamma». 

Ed ecco allora che deve trovare un modo, magari non proprio carino, per differenziarsi, per distaccarsi, per creare una frattura, per esaltare il proprio “io”, il proprio essere differente.
Che fare allora? Primo non spaventarti perché non serve a nulla. Avere di fronte una mamma che riesce a tenere di fronte a queste bordate gli farà sicuramente bene, perché gli toglierà quel senso di onnipotenza e lo rassicurerà.

Poi, visto che rischia di crearsi un’identità negativa per opposizione, il papà ha un ruolo importante nel proporgli un modo maschile, sano, amorevole di comportarsi con te. E quando lo richiama, invece di dirgli «Non si tratta così la mamma», provi a dirgli, «Porta rispetto a mia moglie!». Senti che differenza? Da una imperativo generico negativo ad una prescrizione personale positiva. Dal trattarlo da piccolo cucciolo a considerarlo un ometto responsabile. Dal considerarlo figlio della mamma a considerarlo figlio di una coppia.

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UNA MADRE CORAGGIOSA

1/2/2011

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LA VITA DEI VEDOVI E DELLE VEDOVE È PROVATA DAL DOLORE DELLA PERDITA DEL CONIUGE. MA CON FORZA, CORAGGIO E INTELLIGENZA D’AMORE POSSONO CRESCERE POSITIVAMENTE I LORO FIGLI, ED AIUTARLI A MATURARE CON UNA GRANDE UMANITA'


Si parla spesso delle fatiche di educare i figli, di appianare le divergenze educative tra i coniugi. Si rischia di dimenticare chi, come Giovanna, ci dice che «la difficoltà di fare famiglia per me è quasi quotidiana. Vivo sola con uno splendido figlio di undici anni perché mio marito è morto nel 2004. Abbiamo un bellissimo rapporto basato sul rispetto dei nostri ruoli, ma denso di tanto affetto. Non ho mai pensato di assumere anche il ruolo di padre perché cerco con grande modestia di assolvere a quello di mamma. Ora però che Andrea sta crescendo temo che l’assenza del padre possa in qualche modo turbare il suo equilibrio».

Cara Giovanna, grazie per la tua bella e forte testimonianza di mamma che dona affetto a piene mani nonostante le difficol- tà della vita. Don Oreste è stato tra i primi a parlare di “eclissi del padre” quando ancora nessuno se ne era accorto. Rilevava lo sbiadimento e la debolezza dei padri che c’erano, ma allo stesso tempo diceva che quando il padre veniva a mancare - come nel tuo caso - la madre aveva in sé tutte le potenzialità per far crescere il figlio in maniera equilibrata. Quindi, tu giustamente sei pre-occupata (cioè pensi prima a come occuparti di lui) per tuo figlio e fai bene, perché sei una mamma premurosa. Io penso che l’amore e la costante e intelligente ricerca di strumenti adeguati siano sufficienti a farvi attraversare positivamente tutte le difficoltà legate alla crescita e alla tua particolare situazione. Se posso solamente darti qualche suggerimento, sono due i rischi che vedo legati alla tua situazione. Il primo è che creiate un rapporto troppo stretto dal quale facciate poi fatica a svincolarvi, il secondo è che Andrea si senta talvolta diverso dai coetanei che hanno il padre. Per il primo aspetto credo che un costante monitoraggio e un incoraggiamento a trovarvi i vostri reciproci spazi, che lui coltivi le amicizie della sua età, possano bastare. E mi sembra che in te ci sia la saggezza per favorire questo movimento. Per il secondo cogliere e dare voce ai suoi sentimenti anche di sconforto, lo possono aiutare. Poi c’è il fatto dei modelli, di cui tutti abbiamo bisogno: Andrea è grande abbastanza per capire che gli altri maschi non sono suo padre, quindi tu puoi adoperarti affinché lui possa frequentare uomini che gli forniscano un modello positivo maschile: un allenatore, un animatore
particolarmente in gamba, uno zio. Il fatto che tu sia in continua ricerca è garanzia di una genitorialità che - come sappiamo - non è mai perfetta ma “sufficientemente adeguata”.
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UNA MAMMA INADEGUATA

10/1/2011

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NON È FACILE FARE I GENITORI QUANDO SI È MESSI IN DISCUSSIONE DAI FIGLI. EPPURE È IL MOMENTO NEL QUALE HANNO BISOGNO DEGLI ADULTI E DELLA LORO FORZA D’ANIMO


Si sa, i figli spesso si lamentano dei genitori. Fa parte del gioco: a volte mamma e papà sono i più bravi del mondo, altre volte sono i peggiori. Nell’adolescenza – in particolare – la critica dei modelli familiari, serve ai ragazzi per trovare lo slancio necessario e staccar- si, per riuscire a progettare una vita pro- pria. È un passaggio doloroso ma sano.

Anita invece ci scrive di una figlia di 7 anni che «Mi dice che non l’ascolto mai. È sempre imbronciata, anche davanti agli altri, in pubblico, e questo mi fa imbestialire. Vedo le altre bambine con le loro mamme che sono carine, passeggiano mano nella mano, discutono. La mia sempre a farmi fare figuracce! »

E stai proprio male. Tua figlia che ti sbatte in faccia le tue vere o presunte mancanze è una pugnalata. E ti dici: se adesso è così figuriamoci tra qualche anno!
 «Mi sono convinta di non essere tagliata per fare la madre».

Ma come Anita? Tua figlia ti chiede aiuto e tu ti ritiri?
 Senti, questo è un momento nel quale tua figlia ha particolarmente bisogno di te, e tu sei per lei preziosa ed indispensabile. Perché? Perché altrimenti non ti manife- sterebbe così il suo disagio.

Un disagio c’è, è vero, ma non devi sentirti inadeguata, in colpa, perché il senso di colpa blocca le energie vitali e non ti permette di sintonizzarti su tua figlia.

La guerra di Mario (Antonio Capuano, 2005) parla di un ragazzino difficile, con un passato di violenze, che proviene da una zona degradata alla periferia di Napoli. Viene affidato ad una coppia benestante. La mamma (Valeria Golino) è convinta che “Mario non vuole essere educato, ma accolto” e così il film si gioca in una contrapposizione tra la necessità di educare e quella di lasciare libero. Ma chi l’ha detto che le regole in educazione siano solo una gabbia che limita la libertà? Educare significa anche contenere, condurre, indirizzare al bene. L’assenza di limiti, anche nel film, è un fallimento educativo.

Prova, invece che inadeguata, a sentirti responsabile di tua figlia e del suo malessere.
Responsabile significa “abile a rispondere”.

Solo alcuni spunti per farti riflettere. Il primo: coinvolgi tuo marito. Perché non me ne parli? Potrebbe essere molto salutare la relazione con lui. Metti un po’ di maschile all’interno di quella relazione tutta al femminile con tua fi- glia. Fai spazio alla sua forza, a volte al suo essere un po- chino selvatico, per alleggerire probabilmente un eccessodi fusione. Fallo essere presente come tuo sposo, così tua figlia ti ammirerà.

Secondo: chiediti che figlia sei stata tu. Eri ribelle come lei? Allora procede tutto secondo copione. Eri l’esatto contrario, cioè sempre remissiva? Allora forse c’è un po’ di invidia e di fastidio per quello che fa tua figlia, perché tu non hai mai potuto permettertelo. Chiedi a tua madre – se c’è ancora – e ti sarà di aiuto per conoscere la tua storia.

Terzo ed ultimo: chiediti perché quando ricevi una lamentela la tua autostima vacilla. Tua figlia non ti ha detto che tu sei incapace di ascoltare, ma che non si sente capita. C’è una bella differenza!
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GENITORI A VENT'ANNI? SI, CON SANA INCOSCIENZA

7/1/2011

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Ore 15.45, tranquilla attesa all'apertura del cancello della scuola materna in un tiepida giornata primaverile. L'incauto padre oggi non ha il turno nel pomeriggio e si muove principiante tra le madri dei compagni di suo figlio.  All’esordio una domanda ingenua quanto devastante: «Buongiorno signora... lei è la mamma... o la nonna?». Ormai la frase è detta, e il goffo tentativo di nascondersi dietro qualche battuta non fa che peggiorare la situazione. «Ah, scusi, avevo il sole negli occhi... non ci vedo benissimo... eh sa, noi uomini facciamo spesso queste gaffes... è la terza volta che mi capita... mia moglie me
lo dice sempre di stare zitto...».

A dire il vero il dubbio permane. Sarà una nonna cinquantenne, ben tenuta e palestrata, o è una mamma quarantenne che ha appena finito il lavoro e non ha coperto bene i segni del tempo? Nel primo caso la signora andrà a casa avendo guadagnato una salute d’oro per almeno dieci anni, e racconterà il fatto alle sue amiche per i mesi a venire, nel secondo caso... l’amicizia sarà irri- mediabilmente compromessa.

Non è facile di questi tempi orientarsi tra le generazioni. Si potrebbero organizzare delle scommesse anche guar- dando i maschi che accompagnano i bambini al parco.

Mano nella mano con i piccoli, escono da auto lucide signori distinti con capelli brizzolati e barba bianca, e arrivano a piedi ragazzi quasi imberbi con bermuda e sandali. Sono nonni? Sono i fratelli maggiori? No, nella maggior parte dei casi sono padri. E se un tempo si poteva immaginare che i primi fossero padri attempati che accompagnano l’ultimo figlio, il quarto o il quinto della nidiata, e i secondi fossero semplicemente sposini alle prime armi, oggi non è così. L’Istat ci conferma che, dal 1990 al 2006, i figli unici sono ormai la maggioranza.

Ed è sempre l’Istat a confermarci anche che l’impressione che tutti abbiamo dell’aumento dell’età media dei genitori è fondata.

Tra gli anni ’50 e oggi l’età media di una donna al primo figlio è passata da 25 a 29 anni. Quella dei padri invece è arrivata a 33 anni. Ma sono sempre più le donne che non hanno problemi ad affrontare maternità – la prima mater- nità si intende – anche over 40. Per i padri addirittura la sfida del tempo pare non avere limite, visto che l’orologio biologico, almeno dal punto di vista procreativo, è più prodigo.

Nel corso di un sondaggio nazionale condotto nell’anno 2006, alla domanda «A che età sei diventato padre per la prima volta?», il 25% degli italiani ha risposto «tra i 20 e i 29 anni», il 60% «tra i 30 e i 39 anni» e il 15%«dopo i 40 anni». E riguardo «i motivi del rimando della paternità», il 47% ha dato la colpa a problemi economici, il 26% ha dichiarato che a non sentirsi pronta era la sua partner, il 13% ha risposto di aver rimandato la nascita del primo figlio per motivi legati al lavoro o alla ricerca di una soluzione abitativa; infine un 14% ha dichiarato di non sentirsi pronto ad aver figli.

L’analisi è quindi piuttosto complessa. Si intersecano variabili sociologiche, come la difficoltà a stabilizzarsi sul mercato del lavoro e di conseguenza a pensare di accendere un mutuo, con altre più prettamente psicologiche, legate a un senso di insicurezza e immaturità rispetto al «grande salto».

Sì perché, sempre parlando di sondaggi, emerge chiaramente che – molto più dell’età cronologica, dell’uscire di casa, dello sposarsi, dell’avere un lavoro – è proprio avere un figlio che oggi è considerato come la consacrazione definitiva dell’appartenenza al mondo adulto. Quindi i conti tornano: ci si sposa sempre meno, sempre più tardi, la scelta di avere un figlio viene procrastinata e alla fine... è chiaro che se ne fanno pochi. Non si può liquidare la questione dicendo che avere figli tardi sia necessariamente una brutta abitudine. Occorre però fare qualche ragionamento. Diventare genitori è un atto biologico, ma anche legato all’ambiente nel quale si vive. Avere figli è – si diceva – una «cosa da grandi», ed essere adulti non dipende solo dall’età. Nelle società semplici, nelle quali i processi di socializzazione sono molto essenziali, l’età adulta corrisponde grosso modo con l’età riproduttiva. Nelle società come la nostra, per essere adulti, autonomi, è necessario passare una serie di tappe obbligate prima delle quali è impensabile sganciarsi dalla propria famiglia. Per alcuni – sempre meno – basterebbero le scuole dell’obbligo
e i 2-3 anni per trovare e consolidare un lavoro, e già si arriverebbe ai 20-21. Ma per i più si tratta di un percorso fatto di scuola, università, tirocinio o praticantato, un mini- mo di carriera per mettere via un piccolo gruzzoletto e iniziare la famiglia. Ma lungo la strada ci possono essere anche degli imprevisti: l’indirizzo scolastico che non fa per noi, qualche anno di crisi all’università, problemi sul lavoro, la persona sbagliata. Si fa presto ad arrivare alla soglia dei 40 e preparare la lista nozze. E sono bravi ragazzi, li conosciamo tutti. Ma intanto l’età avanza, anche se i cosmetici e la palestra cercano di farlo dimenticare. Il progresso attuale è avvenuto in maniera vertiginosa negli ultimi secoli, e il nostro corpo non si è ancora adattato. Dal punto di vista biologico i figli sarebbe più convenien- te farli intorno ai vent’anni. Si è più fecondi, certo, ma non solo. Si perdoni la banalità, ma per fare le ore piccole a consolare coliche, aprire e chiudere passeggini, caricarli in macchina, rincorrere un bimbo che scappa sulla strada... ci vuole un fisico bestiale, e 20 anni o 40 non sono proprio la stessa cosa. Dalla parte dei genitori più maturi sta una presunta maggiore consapevolezza di sé, e quindi una competenza a muoversi con più sicurezza nella società. E questo non può che far bene ai bimbi. Ma poi c’è il paradosso della dif- ferenza di età: in una società che cam- bia sempre più velocemente aumenta il divario di età tra genitori e figli. Chi ha un figlio a 40 anni, a 60 avrà un giovane che si affaccia all’università e a 70 un trentenne che affronta il mercato del lavoro. C’è da sperare di rimanere in forma!

Ciò che nelle argomentazioni sulla genitorialità stupisce maggiormente è l’enfasi sugli aspetti più razionali della questione. Arrivati a una certa età – complice l’effettiva maturazione – pare che per alcuni progettare di avere un figlio sia come progettare una casa o una vacanza. Siamo pronti? Abbiamo la casa? Il lavoro? Siamo una coppia stabile? Abbiamo previsto le spese? Abbiamo l’assicurazione? L’ossessione per il calcolo.

Questa è la grande differenza: chi i figli li mette al mondo a vent’anni lo fa con un po’ di sana incoscienza. Incoscienza
sì, quanto basta per considerare che diventare genitori trascende la nostra capacità di calcolo e proietta verso gli orizzonti infiniti della vita che si dispiega. Per chi ha poi il dono della fede, la vita che nasce è partecipazione all’amore di Dio che fin dall’eternità ha un sogno su ogni creatura. È difficile trovare una persona che rimpianga di avere messo al mondo un figlio, succede in momenti di grande sofferenza e solitudine. Ma tutti conosciamo decine di persone che più o meno velatamente rimpiangono di aver aspettato troppo, o di aver avuto paura a fare un figlio in più quando potevano, per motivi che ora paiono banali.

Ben vengano quindi le scelte ponderate, sagge, sapienti, ma gli sposi non perdano mai la freschezza giovanile di buttare il loro amore oltre gli ostacoli quotidiani per partecipare in maniera appassionata, con coraggio e fede, alla grande avventura della vita.

E questo valga per gli sposi di vent’anni e per quelli di quaranta.

PIù TARDI MENO FIGLI

L’età media alla nascita del primogenito per le donne nate nella prima metà degli anni ’60 risulta di poco superiore ai 27 anni, con un aumento di poco meno di 2,5 anni rispetto alle nate a inizio anni ’50. L’età media al primo figlio per gli uomini nati nella prima metà degli anni ’60 supera invece i 33 anni, ed è aumentata di circa 3,5 anni rispetto ai nati a inizio anni ’50. Le analisi evidenziano che più tardi gli uomini arrivano a entrare in coppia e più tendono a posticipare ulteriormente la decisione di mettere al mondo un figlio. La propensione ad avere il primo figlio si riduce di circa l’80% per chi si sposa attorno ai 35 anni rispetto ai 25.


Fonte ISTAT
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    AUTORE

    Marco Scarmagnani
    giornalista e
    consulente familiare

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    che scrivo su Sempre
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    per altre riviste.
     


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