Ore 15.45, tranquilla attesa all'apertura del cancello della scuola materna in un tiepida giornata primaverile. L'incauto padre oggi non ha il turno nel pomeriggio e si muove principiante tra le madri dei compagni di suo figlio. All’esordio una domanda ingenua quanto devastante: «Buongiorno signora... lei è la mamma... o la nonna?». Ormai la frase è detta, e il goffo tentativo di nascondersi dietro qualche battuta non fa che peggiorare la situazione. «Ah, scusi, avevo il sole negli occhi... non ci vedo benissimo... eh sa, noi uomini facciamo spesso queste gaffes... è la terza volta che mi capita... mia moglie me
lo dice sempre di stare zitto...».
A dire il vero il dubbio permane. Sarà una nonna cinquantenne, ben tenuta e palestrata, o è una mamma quarantenne che ha appena finito il lavoro e non ha coperto bene i segni del tempo? Nel primo caso la signora andrà a casa avendo guadagnato una salute d’oro per almeno dieci anni, e racconterà il fatto alle sue amiche per i mesi a venire, nel secondo caso... l’amicizia sarà irri- mediabilmente compromessa.
Non è facile di questi tempi orientarsi tra le generazioni. Si potrebbero organizzare delle scommesse anche guar- dando i maschi che accompagnano i bambini al parco.
Mano nella mano con i piccoli, escono da auto lucide signori distinti con capelli brizzolati e barba bianca, e arrivano a piedi ragazzi quasi imberbi con bermuda e sandali. Sono nonni? Sono i fratelli maggiori? No, nella maggior parte dei casi sono padri. E se un tempo si poteva immaginare che i primi fossero padri attempati che accompagnano l’ultimo figlio, il quarto o il quinto della nidiata, e i secondi fossero semplicemente sposini alle prime armi, oggi non è così. L’Istat ci conferma che, dal 1990 al 2006, i figli unici sono ormai la maggioranza.
Ed è sempre l’Istat a confermarci anche che l’impressione che tutti abbiamo dell’aumento dell’età media dei genitori è fondata.
Tra gli anni ’50 e oggi l’età media di una donna al primo figlio è passata da 25 a 29 anni. Quella dei padri invece è arrivata a 33 anni. Ma sono sempre più le donne che non hanno problemi ad affrontare maternità – la prima mater- nità si intende – anche over 40. Per i padri addirittura la sfida del tempo pare non avere limite, visto che l’orologio biologico, almeno dal punto di vista procreativo, è più prodigo.
Nel corso di un sondaggio nazionale condotto nell’anno 2006, alla domanda «A che età sei diventato padre per la prima volta?», il 25% degli italiani ha risposto «tra i 20 e i 29 anni», il 60% «tra i 30 e i 39 anni» e il 15%«dopo i 40 anni». E riguardo «i motivi del rimando della paternità», il 47% ha dato la colpa a problemi economici, il 26% ha dichiarato che a non sentirsi pronta era la sua partner, il 13% ha risposto di aver rimandato la nascita del primo figlio per motivi legati al lavoro o alla ricerca di una soluzione abitativa; infine un 14% ha dichiarato di non sentirsi pronto ad aver figli.
L’analisi è quindi piuttosto complessa. Si intersecano variabili sociologiche, come la difficoltà a stabilizzarsi sul mercato del lavoro e di conseguenza a pensare di accendere un mutuo, con altre più prettamente psicologiche, legate a un senso di insicurezza e immaturità rispetto al «grande salto».
Sì perché, sempre parlando di sondaggi, emerge chiaramente che – molto più dell’età cronologica, dell’uscire di casa, dello sposarsi, dell’avere un lavoro – è proprio avere un figlio che oggi è considerato come la consacrazione definitiva dell’appartenenza al mondo adulto. Quindi i conti tornano: ci si sposa sempre meno, sempre più tardi, la scelta di avere un figlio viene procrastinata e alla fine... è chiaro che se ne fanno pochi. Non si può liquidare la questione dicendo che avere figli tardi sia necessariamente una brutta abitudine. Occorre però fare qualche ragionamento. Diventare genitori è un atto biologico, ma anche legato all’ambiente nel quale si vive. Avere figli è – si diceva – una «cosa da grandi», ed essere adulti non dipende solo dall’età. Nelle società semplici, nelle quali i processi di socializzazione sono molto essenziali, l’età adulta corrisponde grosso modo con l’età riproduttiva. Nelle società come la nostra, per essere adulti, autonomi, è necessario passare una serie di tappe obbligate prima delle quali è impensabile sganciarsi dalla propria famiglia. Per alcuni – sempre meno – basterebbero le scuole dell’obbligo
e i 2-3 anni per trovare e consolidare un lavoro, e già si arriverebbe ai 20-21. Ma per i più si tratta di un percorso fatto di scuola, università, tirocinio o praticantato, un mini- mo di carriera per mettere via un piccolo gruzzoletto e iniziare la famiglia. Ma lungo la strada ci possono essere anche degli imprevisti: l’indirizzo scolastico che non fa per noi, qualche anno di crisi all’università, problemi sul lavoro, la persona sbagliata. Si fa presto ad arrivare alla soglia dei 40 e preparare la lista nozze. E sono bravi ragazzi, li conosciamo tutti. Ma intanto l’età avanza, anche se i cosmetici e la palestra cercano di farlo dimenticare. Il progresso attuale è avvenuto in maniera vertiginosa negli ultimi secoli, e il nostro corpo non si è ancora adattato. Dal punto di vista biologico i figli sarebbe più convenien- te farli intorno ai vent’anni. Si è più fecondi, certo, ma non solo. Si perdoni la banalità, ma per fare le ore piccole a consolare coliche, aprire e chiudere passeggini, caricarli in macchina, rincorrere un bimbo che scappa sulla strada... ci vuole un fisico bestiale, e 20 anni o 40 non sono proprio la stessa cosa. Dalla parte dei genitori più maturi sta una presunta maggiore consapevolezza di sé, e quindi una competenza a muoversi con più sicurezza nella società. E questo non può che far bene ai bimbi. Ma poi c’è il paradosso della dif- ferenza di età: in una società che cam- bia sempre più velocemente aumenta il divario di età tra genitori e figli. Chi ha un figlio a 40 anni, a 60 avrà un giovane che si affaccia all’università e a 70 un trentenne che affronta il mercato del lavoro. C’è da sperare di rimanere in forma!
Ciò che nelle argomentazioni sulla genitorialità stupisce maggiormente è l’enfasi sugli aspetti più razionali della questione. Arrivati a una certa età – complice l’effettiva maturazione – pare che per alcuni progettare di avere un figlio sia come progettare una casa o una vacanza. Siamo pronti? Abbiamo la casa? Il lavoro? Siamo una coppia stabile? Abbiamo previsto le spese? Abbiamo l’assicurazione? L’ossessione per il calcolo.
Questa è la grande differenza: chi i figli li mette al mondo a vent’anni lo fa con un po’ di sana incoscienza. Incoscienza
sì, quanto basta per considerare che diventare genitori trascende la nostra capacità di calcolo e proietta verso gli orizzonti infiniti della vita che si dispiega. Per chi ha poi il dono della fede, la vita che nasce è partecipazione all’amore di Dio che fin dall’eternità ha un sogno su ogni creatura. È difficile trovare una persona che rimpianga di avere messo al mondo un figlio, succede in momenti di grande sofferenza e solitudine. Ma tutti conosciamo decine di persone che più o meno velatamente rimpiangono di aver aspettato troppo, o di aver avuto paura a fare un figlio in più quando potevano, per motivi che ora paiono banali.
Ben vengano quindi le scelte ponderate, sagge, sapienti, ma gli sposi non perdano mai la freschezza giovanile di buttare il loro amore oltre gli ostacoli quotidiani per partecipare in maniera appassionata, con coraggio e fede, alla grande avventura della vita.
E questo valga per gli sposi di vent’anni e per quelli di quaranta.
PIù TARDI MENO FIGLI
L’età media alla nascita del primogenito per le donne nate nella prima metà degli anni ’60 risulta di poco superiore ai 27 anni, con un aumento di poco meno di 2,5 anni rispetto alle nate a inizio anni ’50. L’età media al primo figlio per gli uomini nati nella prima metà degli anni ’60 supera invece i 33 anni, ed è aumentata di circa 3,5 anni rispetto ai nati a inizio anni ’50. Le analisi evidenziano che più tardi gli uomini arrivano a entrare in coppia e più tendono a posticipare ulteriormente la decisione di mettere al mondo un figlio. La propensione ad avere il primo figlio si riduce di circa l’80% per chi si sposa attorno ai 35 anni rispetto ai 25.
Fonte ISTAT
lo dice sempre di stare zitto...».
A dire il vero il dubbio permane. Sarà una nonna cinquantenne, ben tenuta e palestrata, o è una mamma quarantenne che ha appena finito il lavoro e non ha coperto bene i segni del tempo? Nel primo caso la signora andrà a casa avendo guadagnato una salute d’oro per almeno dieci anni, e racconterà il fatto alle sue amiche per i mesi a venire, nel secondo caso... l’amicizia sarà irri- mediabilmente compromessa.
Non è facile di questi tempi orientarsi tra le generazioni. Si potrebbero organizzare delle scommesse anche guar- dando i maschi che accompagnano i bambini al parco.
Mano nella mano con i piccoli, escono da auto lucide signori distinti con capelli brizzolati e barba bianca, e arrivano a piedi ragazzi quasi imberbi con bermuda e sandali. Sono nonni? Sono i fratelli maggiori? No, nella maggior parte dei casi sono padri. E se un tempo si poteva immaginare che i primi fossero padri attempati che accompagnano l’ultimo figlio, il quarto o il quinto della nidiata, e i secondi fossero semplicemente sposini alle prime armi, oggi non è così. L’Istat ci conferma che, dal 1990 al 2006, i figli unici sono ormai la maggioranza.
Ed è sempre l’Istat a confermarci anche che l’impressione che tutti abbiamo dell’aumento dell’età media dei genitori è fondata.
Tra gli anni ’50 e oggi l’età media di una donna al primo figlio è passata da 25 a 29 anni. Quella dei padri invece è arrivata a 33 anni. Ma sono sempre più le donne che non hanno problemi ad affrontare maternità – la prima mater- nità si intende – anche over 40. Per i padri addirittura la sfida del tempo pare non avere limite, visto che l’orologio biologico, almeno dal punto di vista procreativo, è più prodigo.
Nel corso di un sondaggio nazionale condotto nell’anno 2006, alla domanda «A che età sei diventato padre per la prima volta?», il 25% degli italiani ha risposto «tra i 20 e i 29 anni», il 60% «tra i 30 e i 39 anni» e il 15%«dopo i 40 anni». E riguardo «i motivi del rimando della paternità», il 47% ha dato la colpa a problemi economici, il 26% ha dichiarato che a non sentirsi pronta era la sua partner, il 13% ha risposto di aver rimandato la nascita del primo figlio per motivi legati al lavoro o alla ricerca di una soluzione abitativa; infine un 14% ha dichiarato di non sentirsi pronto ad aver figli.
L’analisi è quindi piuttosto complessa. Si intersecano variabili sociologiche, come la difficoltà a stabilizzarsi sul mercato del lavoro e di conseguenza a pensare di accendere un mutuo, con altre più prettamente psicologiche, legate a un senso di insicurezza e immaturità rispetto al «grande salto».
Sì perché, sempre parlando di sondaggi, emerge chiaramente che – molto più dell’età cronologica, dell’uscire di casa, dello sposarsi, dell’avere un lavoro – è proprio avere un figlio che oggi è considerato come la consacrazione definitiva dell’appartenenza al mondo adulto. Quindi i conti tornano: ci si sposa sempre meno, sempre più tardi, la scelta di avere un figlio viene procrastinata e alla fine... è chiaro che se ne fanno pochi. Non si può liquidare la questione dicendo che avere figli tardi sia necessariamente una brutta abitudine. Occorre però fare qualche ragionamento. Diventare genitori è un atto biologico, ma anche legato all’ambiente nel quale si vive. Avere figli è – si diceva – una «cosa da grandi», ed essere adulti non dipende solo dall’età. Nelle società semplici, nelle quali i processi di socializzazione sono molto essenziali, l’età adulta corrisponde grosso modo con l’età riproduttiva. Nelle società come la nostra, per essere adulti, autonomi, è necessario passare una serie di tappe obbligate prima delle quali è impensabile sganciarsi dalla propria famiglia. Per alcuni – sempre meno – basterebbero le scuole dell’obbligo
e i 2-3 anni per trovare e consolidare un lavoro, e già si arriverebbe ai 20-21. Ma per i più si tratta di un percorso fatto di scuola, università, tirocinio o praticantato, un mini- mo di carriera per mettere via un piccolo gruzzoletto e iniziare la famiglia. Ma lungo la strada ci possono essere anche degli imprevisti: l’indirizzo scolastico che non fa per noi, qualche anno di crisi all’università, problemi sul lavoro, la persona sbagliata. Si fa presto ad arrivare alla soglia dei 40 e preparare la lista nozze. E sono bravi ragazzi, li conosciamo tutti. Ma intanto l’età avanza, anche se i cosmetici e la palestra cercano di farlo dimenticare. Il progresso attuale è avvenuto in maniera vertiginosa negli ultimi secoli, e il nostro corpo non si è ancora adattato. Dal punto di vista biologico i figli sarebbe più convenien- te farli intorno ai vent’anni. Si è più fecondi, certo, ma non solo. Si perdoni la banalità, ma per fare le ore piccole a consolare coliche, aprire e chiudere passeggini, caricarli in macchina, rincorrere un bimbo che scappa sulla strada... ci vuole un fisico bestiale, e 20 anni o 40 non sono proprio la stessa cosa. Dalla parte dei genitori più maturi sta una presunta maggiore consapevolezza di sé, e quindi una competenza a muoversi con più sicurezza nella società. E questo non può che far bene ai bimbi. Ma poi c’è il paradosso della dif- ferenza di età: in una società che cam- bia sempre più velocemente aumenta il divario di età tra genitori e figli. Chi ha un figlio a 40 anni, a 60 avrà un giovane che si affaccia all’università e a 70 un trentenne che affronta il mercato del lavoro. C’è da sperare di rimanere in forma!
Ciò che nelle argomentazioni sulla genitorialità stupisce maggiormente è l’enfasi sugli aspetti più razionali della questione. Arrivati a una certa età – complice l’effettiva maturazione – pare che per alcuni progettare di avere un figlio sia come progettare una casa o una vacanza. Siamo pronti? Abbiamo la casa? Il lavoro? Siamo una coppia stabile? Abbiamo previsto le spese? Abbiamo l’assicurazione? L’ossessione per il calcolo.
Questa è la grande differenza: chi i figli li mette al mondo a vent’anni lo fa con un po’ di sana incoscienza. Incoscienza
sì, quanto basta per considerare che diventare genitori trascende la nostra capacità di calcolo e proietta verso gli orizzonti infiniti della vita che si dispiega. Per chi ha poi il dono della fede, la vita che nasce è partecipazione all’amore di Dio che fin dall’eternità ha un sogno su ogni creatura. È difficile trovare una persona che rimpianga di avere messo al mondo un figlio, succede in momenti di grande sofferenza e solitudine. Ma tutti conosciamo decine di persone che più o meno velatamente rimpiangono di aver aspettato troppo, o di aver avuto paura a fare un figlio in più quando potevano, per motivi che ora paiono banali.
Ben vengano quindi le scelte ponderate, sagge, sapienti, ma gli sposi non perdano mai la freschezza giovanile di buttare il loro amore oltre gli ostacoli quotidiani per partecipare in maniera appassionata, con coraggio e fede, alla grande avventura della vita.
E questo valga per gli sposi di vent’anni e per quelli di quaranta.
PIù TARDI MENO FIGLI
L’età media alla nascita del primogenito per le donne nate nella prima metà degli anni ’60 risulta di poco superiore ai 27 anni, con un aumento di poco meno di 2,5 anni rispetto alle nate a inizio anni ’50. L’età media al primo figlio per gli uomini nati nella prima metà degli anni ’60 supera invece i 33 anni, ed è aumentata di circa 3,5 anni rispetto ai nati a inizio anni ’50. Le analisi evidenziano che più tardi gli uomini arrivano a entrare in coppia e più tendono a posticipare ulteriormente la decisione di mettere al mondo un figlio. La propensione ad avere il primo figlio si riduce di circa l’80% per chi si sposa attorno ai 35 anni rispetto ai 25.
Fonte ISTAT