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CASALINGO DUBBIOSO

10/1/2011

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SPESSO E' UNA LOTTA DI POTERE DECIDERE A CHI SPETTANO LE FACCENDE DOMESTICHE

Caro Marco, ho ventitre anni e ho scelto di vivere in una casa famiglia. È un’esperienza entusiasmante che mi riempie il cuore e dà senso alla mia vita. Accogliere ragazzi in difficoltà, per periodi brevi o lunghi, condividerne la vita, mettere tutto questo in un’ottica di fede... Fantastico! C’è però un punto che mi piacerebbe chiarire, e non vorrei essere frainteso. Riguarda le faccende domestiche... Guarda, non sono un maschilista che pensa che le debbano fare solo le mie “sorelle” ma io le vivo con particolare insofferenza, e un po’ mi vergogno. Penso ai miei coetanei che studiano o lavorano, e io qua a fare i letti. Mi sento a disagio, la gente potrebbe pensare di me che non ho niente da fare, o che non sono abbastanza uomo. Mi chiedo se non sarebbe meglio che io andassi a lavorare. D’altronde tutti i papà lavorano... Ah, qualche giorno fa ho parlato con un altro che vive in casa famiglia con sua moglie. Lui è sposato ma... non è che la faccenda la vede tanto diversamente da me!

Pietro - da e-mail


Caro Pietro, molti di coloro che fanno la tua esperienza hanno gli stessi tuoi pensieri: «Vivere in casa-famiglia? Bello, originale, spiritualmente appagante, ma... non starei meglio se potessi anche lavorare? »

È una domanda sana, semplice, ma che richiede una risposta un po’ articolata. Bisogna infatti tenere conto di almeno due piani: il primo è il piano – definiamo- lo – sociologico. Tutti gli uomini lavorano, siamo stati giustamente educati al fatto che bisogna lavorare (anche San Paolo ricorda che “chi non vuol lavorare, neppure mangi”), e se non lo facciamo ci sentiamo pesci fuor d’acqua. È una questione di modelli. Il modello del “maschio lavoratore” è ben presente, per quello del “papà di casa famiglia” bisognerà aspettare. E chi vive in casa-famiglia in realtà non è che non “lavori”. Il secondo aspetto – non completamente slegato dal primo – è quello più legato al genere, al tuo essere maschio.

È acquisizione ormai comune che le donne e gli uomini vivano la casa in maniera differente. Non che per questo svolgano con allegria le faccende domestiche, anzi! In genere sono una seccatura per entrambi in sessi, e spesso è la lotta di potere che determina chi le svolgerà. Ma non è questo il punto. La vera differenza sta in come si vive la casa. Per le donne la casa è una specie di prolungamento di sé, è un ambiente che deve essere in armonia, e per questo ci tengono di più al fatto che sia bello, accogliente, di un ordine che riflette un ordine interiore. Per un uomo in genere la casa ha un valore funzionale: è il posto dove si mangia, si dorme, si sta insieme. Se faccio i lavori, per esempio di giardinaggio (guarda caso: all’esterno!) li faccio per avere la soddisfazione di vedere quanto sono abile. Tenuto conto di queste differenze – caro Pietro – non ti resta che discutere insieme alle persone che vivono con te – tenendo conto delle necessità delle persone che avete accolto – gli spazi e i tempi per vivere le faccende domestiche e un eventuale lavoro esterno. Ma che sia una crescita di tutti, della vostra famiglia, non una fuga!
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UN UOMO IN CARRIERA

7/1/2011

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PIU LEI E' ANSIOSA E PIU' LUI SI SENTE FRUSTRATO E COMPRESSO, PIU' LUI E' FRUSTRATO PIU' LEI SI SENTE ANSIOSA E SOLA.

Caro Marco, io e mia moglie spesso ci troviamo a discutere sul differente peso che diamo al lavoro. Per me è un importante momento di realizzazione personale con tempi variabili, possibile accettazione di mobilità e di compensi incentivati, per lei momento di sicurezza familiare però da incasellare in schemi rigidi e precisi tanto da ‘bollare’ il mio approccio come disinteresse verso la famiglia. A volte questo non ci permette di essere sereni, e ogni cambiamento di programma viene vissuto come una tragedia. Avremmo bisogno di qualche spunto di riflessione.

Lino e Tiziana - via mail

Che cos’è la professione? Un modo per guadagnare il pane quotidiano? Un ambito di realizzazione? Un indicatore dello stato sociale? Forse tutte queste cose insieme e forse ancora di più.

Cari Lino e Tiziana, vi assicuro e vi rassicuro che è piuttosto comune che tra coniugi si presentino dinamiche come le vostre. In molte famiglie lui vorrebbe dedicarsi anima e corpo al lavoro e sente che lei mette una sorta di lazo attorno al suo collo per richiamarlo agli impegni familiari. E le immagini che hanno l’uno dell’altra sono speculari e distorte. Lui vede lei come una tiranna capricciosa che invece di ringraziarlo per quanto si sacrifica lo rimprovera; lei vede lui come un inaffidabile che si appassiona per ogni
nuova opportunità lavorativa e non altrettanto per la famiglia.

A questo punto come vi sentite? Frustrato e ansiosa.

E queste due posizioni tendono a rinforzarsi in un circolo vizioso piuttosto noto: più lei è ansiosa e più lui si sente frustrato e compresso, più lui è frustrato più lei si sente ansiosa e sola.

E così lei: «Non ci sei mai! Questa casa non è un albergo!». E lui: «Sei soffocante! I miei colleghi sono ancora al lavoro!». E ognuno porta esempi a sostegno della sua tesi, gli amici che più fanno comodo, le teorie psico-pedagogiche tirate per la giacchetta: «È la qualità del tempo che conta!», o «Le famiglie più sane concordano i tempi».

La domanda che invece si deve fare Tiziana sarà: «Che posso fare perché Lino si possa realizzare come piace a lui? » E Lino: «Di quali rassicurazioni ha bisogno Tiziana per non sentirsi sola? »

Queste domande non vi risolveranno il problema ma vi permetteranno di impostarlo nel giusto modo. Attenzione però! Le soluzioni trovate dovranno arrivare attraverso un percorso empatico, non tecnico. Sarà infatti dalla percezioni di essere stati capiti che vi deriverà la sicurezza, e quindi la disponibilità al cambiamento.

L’accordo è una delle poche esperienze nelle quali il viag- gio è più importante della meta.
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GENITORI A VENT'ANNI? SI, CON SANA INCOSCIENZA

7/1/2011

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Ore 15.45, tranquilla attesa all'apertura del cancello della scuola materna in un tiepida giornata primaverile. L'incauto padre oggi non ha il turno nel pomeriggio e si muove principiante tra le madri dei compagni di suo figlio.  All’esordio una domanda ingenua quanto devastante: «Buongiorno signora... lei è la mamma... o la nonna?». Ormai la frase è detta, e il goffo tentativo di nascondersi dietro qualche battuta non fa che peggiorare la situazione. «Ah, scusi, avevo il sole negli occhi... non ci vedo benissimo... eh sa, noi uomini facciamo spesso queste gaffes... è la terza volta che mi capita... mia moglie me
lo dice sempre di stare zitto...».

A dire il vero il dubbio permane. Sarà una nonna cinquantenne, ben tenuta e palestrata, o è una mamma quarantenne che ha appena finito il lavoro e non ha coperto bene i segni del tempo? Nel primo caso la signora andrà a casa avendo guadagnato una salute d’oro per almeno dieci anni, e racconterà il fatto alle sue amiche per i mesi a venire, nel secondo caso... l’amicizia sarà irri- mediabilmente compromessa.

Non è facile di questi tempi orientarsi tra le generazioni. Si potrebbero organizzare delle scommesse anche guar- dando i maschi che accompagnano i bambini al parco.

Mano nella mano con i piccoli, escono da auto lucide signori distinti con capelli brizzolati e barba bianca, e arrivano a piedi ragazzi quasi imberbi con bermuda e sandali. Sono nonni? Sono i fratelli maggiori? No, nella maggior parte dei casi sono padri. E se un tempo si poteva immaginare che i primi fossero padri attempati che accompagnano l’ultimo figlio, il quarto o il quinto della nidiata, e i secondi fossero semplicemente sposini alle prime armi, oggi non è così. L’Istat ci conferma che, dal 1990 al 2006, i figli unici sono ormai la maggioranza.

Ed è sempre l’Istat a confermarci anche che l’impressione che tutti abbiamo dell’aumento dell’età media dei genitori è fondata.

Tra gli anni ’50 e oggi l’età media di una donna al primo figlio è passata da 25 a 29 anni. Quella dei padri invece è arrivata a 33 anni. Ma sono sempre più le donne che non hanno problemi ad affrontare maternità – la prima mater- nità si intende – anche over 40. Per i padri addirittura la sfida del tempo pare non avere limite, visto che l’orologio biologico, almeno dal punto di vista procreativo, è più prodigo.

Nel corso di un sondaggio nazionale condotto nell’anno 2006, alla domanda «A che età sei diventato padre per la prima volta?», il 25% degli italiani ha risposto «tra i 20 e i 29 anni», il 60% «tra i 30 e i 39 anni» e il 15%«dopo i 40 anni». E riguardo «i motivi del rimando della paternità», il 47% ha dato la colpa a problemi economici, il 26% ha dichiarato che a non sentirsi pronta era la sua partner, il 13% ha risposto di aver rimandato la nascita del primo figlio per motivi legati al lavoro o alla ricerca di una soluzione abitativa; infine un 14% ha dichiarato di non sentirsi pronto ad aver figli.

L’analisi è quindi piuttosto complessa. Si intersecano variabili sociologiche, come la difficoltà a stabilizzarsi sul mercato del lavoro e di conseguenza a pensare di accendere un mutuo, con altre più prettamente psicologiche, legate a un senso di insicurezza e immaturità rispetto al «grande salto».

Sì perché, sempre parlando di sondaggi, emerge chiaramente che – molto più dell’età cronologica, dell’uscire di casa, dello sposarsi, dell’avere un lavoro – è proprio avere un figlio che oggi è considerato come la consacrazione definitiva dell’appartenenza al mondo adulto. Quindi i conti tornano: ci si sposa sempre meno, sempre più tardi, la scelta di avere un figlio viene procrastinata e alla fine... è chiaro che se ne fanno pochi. Non si può liquidare la questione dicendo che avere figli tardi sia necessariamente una brutta abitudine. Occorre però fare qualche ragionamento. Diventare genitori è un atto biologico, ma anche legato all’ambiente nel quale si vive. Avere figli è – si diceva – una «cosa da grandi», ed essere adulti non dipende solo dall’età. Nelle società semplici, nelle quali i processi di socializzazione sono molto essenziali, l’età adulta corrisponde grosso modo con l’età riproduttiva. Nelle società come la nostra, per essere adulti, autonomi, è necessario passare una serie di tappe obbligate prima delle quali è impensabile sganciarsi dalla propria famiglia. Per alcuni – sempre meno – basterebbero le scuole dell’obbligo
e i 2-3 anni per trovare e consolidare un lavoro, e già si arriverebbe ai 20-21. Ma per i più si tratta di un percorso fatto di scuola, università, tirocinio o praticantato, un mini- mo di carriera per mettere via un piccolo gruzzoletto e iniziare la famiglia. Ma lungo la strada ci possono essere anche degli imprevisti: l’indirizzo scolastico che non fa per noi, qualche anno di crisi all’università, problemi sul lavoro, la persona sbagliata. Si fa presto ad arrivare alla soglia dei 40 e preparare la lista nozze. E sono bravi ragazzi, li conosciamo tutti. Ma intanto l’età avanza, anche se i cosmetici e la palestra cercano di farlo dimenticare. Il progresso attuale è avvenuto in maniera vertiginosa negli ultimi secoli, e il nostro corpo non si è ancora adattato. Dal punto di vista biologico i figli sarebbe più convenien- te farli intorno ai vent’anni. Si è più fecondi, certo, ma non solo. Si perdoni la banalità, ma per fare le ore piccole a consolare coliche, aprire e chiudere passeggini, caricarli in macchina, rincorrere un bimbo che scappa sulla strada... ci vuole un fisico bestiale, e 20 anni o 40 non sono proprio la stessa cosa. Dalla parte dei genitori più maturi sta una presunta maggiore consapevolezza di sé, e quindi una competenza a muoversi con più sicurezza nella società. E questo non può che far bene ai bimbi. Ma poi c’è il paradosso della dif- ferenza di età: in una società che cam- bia sempre più velocemente aumenta il divario di età tra genitori e figli. Chi ha un figlio a 40 anni, a 60 avrà un giovane che si affaccia all’università e a 70 un trentenne che affronta il mercato del lavoro. C’è da sperare di rimanere in forma!

Ciò che nelle argomentazioni sulla genitorialità stupisce maggiormente è l’enfasi sugli aspetti più razionali della questione. Arrivati a una certa età – complice l’effettiva maturazione – pare che per alcuni progettare di avere un figlio sia come progettare una casa o una vacanza. Siamo pronti? Abbiamo la casa? Il lavoro? Siamo una coppia stabile? Abbiamo previsto le spese? Abbiamo l’assicurazione? L’ossessione per il calcolo.

Questa è la grande differenza: chi i figli li mette al mondo a vent’anni lo fa con un po’ di sana incoscienza. Incoscienza
sì, quanto basta per considerare che diventare genitori trascende la nostra capacità di calcolo e proietta verso gli orizzonti infiniti della vita che si dispiega. Per chi ha poi il dono della fede, la vita che nasce è partecipazione all’amore di Dio che fin dall’eternità ha un sogno su ogni creatura. È difficile trovare una persona che rimpianga di avere messo al mondo un figlio, succede in momenti di grande sofferenza e solitudine. Ma tutti conosciamo decine di persone che più o meno velatamente rimpiangono di aver aspettato troppo, o di aver avuto paura a fare un figlio in più quando potevano, per motivi che ora paiono banali.

Ben vengano quindi le scelte ponderate, sagge, sapienti, ma gli sposi non perdano mai la freschezza giovanile di buttare il loro amore oltre gli ostacoli quotidiani per partecipare in maniera appassionata, con coraggio e fede, alla grande avventura della vita.

E questo valga per gli sposi di vent’anni e per quelli di quaranta.

PIù TARDI MENO FIGLI

L’età media alla nascita del primogenito per le donne nate nella prima metà degli anni ’60 risulta di poco superiore ai 27 anni, con un aumento di poco meno di 2,5 anni rispetto alle nate a inizio anni ’50. L’età media al primo figlio per gli uomini nati nella prima metà degli anni ’60 supera invece i 33 anni, ed è aumentata di circa 3,5 anni rispetto ai nati a inizio anni ’50. Le analisi evidenziano che più tardi gli uomini arrivano a entrare in coppia e più tendono a posticipare ulteriormente la decisione di mettere al mondo un figlio. La propensione ad avere il primo figlio si riduce di circa l’80% per chi si sposa attorno ai 35 anni rispetto ai 25.


Fonte ISTAT
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TROPPI IMPEGNI?

30/12/2010

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QUANDO USCIAMO PORTIAMO TUTTA LA RICCHEZZA DELLA NOSTRA FAMIGLIA

Sono sposata e ho un bambino di due anni; la nostra è una famiglia felice, condividiamo tutto e soprattutto decidiamo sempre tutti insieme come progettare la nostra vita familiare. Da qualche mese ho iniziato una scuola serale che mi impegna una sera a settimana e mio marito invece si dedica ad un’associazione di volontariato, sempre una sera la settimana. Abbiamo deciso, insieme, di non essere fuori casa la stessa sera per poter stare, ovviamente, con il bambino. Parlando di come ci siamo organizzati con una mia amica mi sono però sentita rispondere: «Siete sempre fuori e molto impegnati! Poi non c’è tempo per stare insieme e la gente divorzia!» Ed io, che già avevo dei sensi di colpa perché lascio la mia famiglia a casa per seguire una mia passione, ho avuto mille ripensamenti e mille dubbi. Premesso che mio marito ed io non ci facciamo mai pesare nulla, anzi, siamo felici delle attività l’uno dell’altra, dopo questa infelice osservazione sono un po’ perplessa. Saluti.

Simonetta dal Veneto

Tempo e spazio: sono le dimensioni nelle quali ognuno di noi vive, si relaziona, ama.

Quali i tempi e gli spazi del nostro prenderci cura, dell’ascoltarci, dell’accoglierci? Quali quelli del nostro proiettarci fuori le mura domestiche? Soprattutto oggi, che la vita familiare è sempre più complessa, dobbiamo dosare con intelligenza i nostri impegni e confrontarci continuamente, per evitare che diventino fughe e illusorio tentativo di appagamento personale a scapito del benessere familiare.

Tutti conosciamo famiglie nelle quali ogni impegno dell’uno è un mugugno dell’altro, ma non è questo il tuo caso. Conosciamo anche famiglie nelle quali ognuno va per la sua strada e nessuno ha nulla da ridire e ci chiediamo: ma sono famiglie? È necessario trovare un equilibrio, e dare agli impegni extrafamiliari la giusta collocazione.

Immagina la tua famiglia come un giardino. Nel giardino ci sono tante aiuole e ogni aiuola va curata. C’è l’aiuola tua personale, quella di tuo marito, quella di tuo figlio, quella della coppia, quella di voi insieme come famiglia. Se ne trascuri anche una sola, le erbacce che crescono infesteranno anche le altre.

Simonetta, quello a cui dovete fare attenzione non è la quantità di impegni che ognuno di voi si prende, ma il fatto che gli impegni siano bilanciati e condivisi. Qual è la giusta misura? Qui sta la difficoltà, perché non solo ognuno è diverso e ogni famiglia è a sé, ma la stessa famiglia – nel corso della vita – darà risposte differenti. Quando ci sono i bambini piccoli è più difficile uscire per motivi soprattutto pratici, quando invece sono più grandi è quasi una necessità buttarsi all’esterno e vivere una genitorialità sociale.

Gli impegni di ognuno coinvolgono tutti e, quando usciamo, si noterà quando portiamo dentro di noi la ricchezza di tutta la nostra famiglia. E che differenza!
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    AUTORE

    Marco Scarmagnani
    giornalista e
    consulente familiare

    In questo blog trovate la rubrica mensile
    che scrivo su Sempre
    e articoli scritti
    per altre riviste.
     


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