
Bene Anita, sei già a buon punto, in quanto fino a non molto tempo fa molti si chiedevano se fosse opportuno dire ad un figlio che era stato adottato. Oggi, complici i passi compiuti dalla psicologia, dalla pedagogia e dal buon senso di molti genitori adottivi, ci si preoccupa piuttosto del “come” e del “quando” dirlo.
La cornice è questa: la verità è una medicina molto potente che può lenire molti dolori.
E qui non parliamo solo del dolore del bambino, ma anche del dolore che la verità potrebbe arrecare ai genitori adottivi. Parlare di un’altra mamma, di un’altra pancia, di una situazione di disagio che ha portato all’abbandono... sono temi – cara Anita – che fanno soffrire prima di tutto noi adulti. E quindi il percorso va intrapreso nel duplice senso: la verità per permettere al bambino di connettersi ad una storia di vita tortuosa ma “sensata” e una verità perché la coppia adottiva possa – nel corso degli anni – metabolizzare la storia della relazione con questo bambino.
Quando? Sempre. Come? Nel modo più naturale possi- bile. Penso che non ci debba essere un momento preciso in cui si dice che è stato adottato; lui deve crescere nella consapevolezza di questa sua condizione, commisurata al suo modo di comprendere. Non andrà assillato con il continuo ricordagli della sua condizione di bambino adottato allo stesso modo che una mamma non continuaa dire ad un bambino “tu sei mio figlio, ricordatelo!”. Piuttosto, tu e tuo marito, dovrete vivere sempre con
questa consapevolezza che il vostro non è un gioco a “fare finta che...”, dovrete soprattutto essere pronti alle sue domande, che saranno diverse a mano a mano che lui crescerà e sarà in grado di capire, di concettualizzare. Certo, ci saranno anche delle difficoltà e delle provocazioni, ma nella verità le difficoltà che vivrete non saranno più intense dalle difficoltà che incontrano i genitori con i figli naturali. Riguarderanno l’autonomia e la dipendenza, l’appartenenza e il distacco, temi che ognuno di noi deve affrontare per diventare ogni giorno sempre più uomo, sempre più donna.
Cinema, carriera e famiglia
Interessanti spunti sulla gestione della dinamica famiglia/lavoro vengono dal cinema. Solo per citarne alcuni tra i più trovabili: l’intramontabile The family man (Ratner, 2000) racconta una favola moderna su affetti e professione, La febbre (D’Alatri, 2005) racconta della dinamica tra lavoro passione e lavoro preconfezionato. In tutti spicca una passione particolarmente maschile per la carriera. Se si vuole qualcosa di più declinato al femminile si può guardare Il diavolo veste Prada (Frankel, 2006), mentre tutta la famiglia si può divertire con il cartone della Pixar Gli incredibili del 2004.