FORZARLO NON SI PUÒ PIÙ PERCHÉ È GRANDE. PERMETTERGLI DI NON STUDIARE È DISEDUCATIVO. CHE FARE QUANDO UN FIGLIO QUASI MAGGIORENNE NON VUOLE IMPEGNARSI?
Un braccio di ferro via via più sfibrante. È un figlio che non vuole studiare. Una lotta quotidiana fatta di attese deluse, di momenti di tensione e altri in cui si molla. Si prova con le buone maniere e non serve, con i premi diventa un ricatto; si prova allora ad essere duri, anche facendo violenza a se stessi, con le punizioni, con le privazioni (cellulare, Playstation, uscite). Niente! Il muro si fa sempre più alto. La guerra si espande a tutta la famiglia. «È colpa tua», «No, è tua», si accusano marito e moglie. «È per- ché sei troppo rigido», «È perché lo vizi da sempre», «Perché lavori troppo», «Per- ché lo assilli» e avanti così. E gli altri figli si lamentano: «Siete sempre dietro a lui». Quando non ci si mettono i nonni, gli zii e gli amici a dare consigli.
«Sono una mamma con quattro figli – scrive Virginia –. Tutti sono bravi ed autono- mi a scuola tranne il secondo figlio di 17 anni che frequenta la quarta superiore con sofferenza. Dice che non vuole essere uno “sfigato” come le sue compagne di classe che stanno in casa tutto il giorno a studiare».
Ha ragione! Stare in casa a scaldare la sedia e riempir- si la testa di nozioni è proprio “da sfigati”. A 17 anni il sangue ribolle nelle vene, ci si emoziona, ci si appassiona. Questo gli deve dare lo studio come le grandi domande che lo travolgono. Come sarò? Che lavoro farò? Come posso essere originale? Me la caverò da solo? Su chi potrò contare? «Le volte che studia con serietà se la cava bene – prosegue Virginia –. In pratica non è motivato allo studio. A me sembra di capire che là dove c’è bisogno di fare degli sforzi, delle fatiche, preferisca rinunciare».
La voglia, l’ha capito bene, viene da dentro, non da fuori. E questa capacità di porre dei confini, di dire “la motivazione, la passione deve essere mia” è cosa sana, desiderio di auto-nomia, che significa darsi una propria legge, interiore. Che fare allora? Chiede Virginia. «Non vorremmo che facesse qualche colpo di testa». Non è faci- le accompagnare i figli in questa fase. Quando i tentativi di “fare” vanno a vuoto non resta che provare con l’“essere”. Essere di esempio con il proprio lavoro vissuto con gioia e dedizione, anche quando ci sono fatica e momenti di sconforto. Poi, qualche regoletta non può che far bene. Cose semplici: un giorno fisso in cui si cena tutti insieme, che ognuno in casa abbia dei compiti, cadenzare momenti di studio e momenti di svago.
Molti giovani, nel subbuglio delle loro emozioni, gridano il bisogno di ordine. La regola sana non va imposta come una gabbia, ma fatta gustare come un ritmo senza il quale anche la musica – che tanto piace ai ragazzi – non sarebbe così bella.
Uno su quattro lascia
Recenti dati diffusi dal Ministero dell’Istruzione confermano che la dispersione scolastica – detta tecnica- mente drop-out – negli ultimi decenni ha subito una forte riduzione ma è ancora significativa. Nelle scuole secondarie superiori gli stu- denti che lasciano nel corso dell’anno scolastico sono il 4,6%.
La dispersione scolastica colpisce maggiormente gli studenti degli istituti professionali (8,9%) e gli Istituti d’arte ( 6,5%), più limitata nei licei scientifici (1,8%).
Su 100 ragazzi che si iscrivono alle superiori soltanto 72-73 arrivano al diploma.
«Sono una mamma con quattro figli – scrive Virginia –. Tutti sono bravi ed autono- mi a scuola tranne il secondo figlio di 17 anni che frequenta la quarta superiore con sofferenza. Dice che non vuole essere uno “sfigato” come le sue compagne di classe che stanno in casa tutto il giorno a studiare».
Ha ragione! Stare in casa a scaldare la sedia e riempir- si la testa di nozioni è proprio “da sfigati”. A 17 anni il sangue ribolle nelle vene, ci si emoziona, ci si appassiona. Questo gli deve dare lo studio come le grandi domande che lo travolgono. Come sarò? Che lavoro farò? Come posso essere originale? Me la caverò da solo? Su chi potrò contare? «Le volte che studia con serietà se la cava bene – prosegue Virginia –. In pratica non è motivato allo studio. A me sembra di capire che là dove c’è bisogno di fare degli sforzi, delle fatiche, preferisca rinunciare».
La voglia, l’ha capito bene, viene da dentro, non da fuori. E questa capacità di porre dei confini, di dire “la motivazione, la passione deve essere mia” è cosa sana, desiderio di auto-nomia, che significa darsi una propria legge, interiore. Che fare allora? Chiede Virginia. «Non vorremmo che facesse qualche colpo di testa». Non è faci- le accompagnare i figli in questa fase. Quando i tentativi di “fare” vanno a vuoto non resta che provare con l’“essere”. Essere di esempio con il proprio lavoro vissuto con gioia e dedizione, anche quando ci sono fatica e momenti di sconforto. Poi, qualche regoletta non può che far bene. Cose semplici: un giorno fisso in cui si cena tutti insieme, che ognuno in casa abbia dei compiti, cadenzare momenti di studio e momenti di svago.
Molti giovani, nel subbuglio delle loro emozioni, gridano il bisogno di ordine. La regola sana non va imposta come una gabbia, ma fatta gustare come un ritmo senza il quale anche la musica – che tanto piace ai ragazzi – non sarebbe così bella.
Uno su quattro lascia
Recenti dati diffusi dal Ministero dell’Istruzione confermano che la dispersione scolastica – detta tecnica- mente drop-out – negli ultimi decenni ha subito una forte riduzione ma è ancora significativa. Nelle scuole secondarie superiori gli stu- denti che lasciano nel corso dell’anno scolastico sono il 4,6%.
La dispersione scolastica colpisce maggiormente gli studenti degli istituti professionali (8,9%) e gli Istituti d’arte ( 6,5%), più limitata nei licei scientifici (1,8%).
Su 100 ragazzi che si iscrivono alle superiori soltanto 72-73 arrivano al diploma.